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10 CLOVERFIELD LANE

10 CLOVERFIELD LANE

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Nel fantastico universo di J.J. Abrams & Co.

Qualche anno fa J.J. Abrams, assieme ai sodali Matt Reeves e Drew Goddard, poneva la pietra tombale sul genere found footage (senza dimenticare l’altrettanto fondamentale Diary of the Dead di Romero). Il monster movie Cloverfield aggiornava il terrore della minaccia esterna alle paranoie contemporanee, con la città americana per antonomasia, New York, colpita in tutti i suoi luoghi iconici da una gigantesca creatura le cui origini non erano mai svelate nel corso della pellicola. Godzilla nell’era degli smartphone. La catastrofe registrata dal punto di vista dell’uomo comune, impotente e impaurito di fronte a mostruosità al di là del proprio controllo. L’unica via è la fuga, e l’ossessiva ripresa delle immagini circostanti il solo elemento su cui l’uomo, messo di fronte ad eventi più grandi di sé, può ancora esercitare potere e ordine.
Cloverfield, silenziosamente, ha modificato il DNA del blockbuster odierno, costretto a fare i conti con una realtà visiva che non può più essere quella ingenua della decade precedente. Dal Godzilla di Edwards a San Andreas, il cinema americano ha rimesso in discussione l’immaginario visivo della catastrofe e della distruzione, in un cortocircuito visivo dove a tornare protagonista è l’essere umano, nella sua “piccolezza”. Annunciato a sorpresa solo pochi mesi fa, 10 Cloverfield Lane (diretto dal semi esordiente Dan Trachtenberg e scritto, tra gli altri, da Damien Chazelle, autore di Whiplash) è, nelle parole del produttore J.J. Abrams, un “sequel spirituale” del precedente. Che vuol dire tutto e nulla, ma conferma l’astuzia commerciale del deus ex machina di Lost, dell’ultimo Star Wars e di tanti altri successi. Ovviamente è possibile sbizzarrirsi nelle più fantasiose teorie che permettano di collegare questo 10 Cloverfield Lane alla precedente pellicola dallo stesso nome, ma per chi ha visto il film è chiaro che i due titoli non hanno assolutamente nulla da spartire l’uno con l’altro. Non si tratta di un prequel, né di un sequel (né di un midquel… ehm…). Più probabile che la Paramount avesse per le mani un film (il cui titolo di lavorazione sino ad un anno fa era The Cellar) che non sapeva bene come vendere, almeno sino all’arrivo di Abrams & Co., che hanno avuto la brillante intuizione di promuovere il prodotto come un misterioso seguito del loro film di successo del 2008. Cinque milioni di budget e oltre settanta di incasso solo in patria sono la conferma che la strategia attuata si è rivelata un successo. Ma davvero i due film sono totalmente slegati tra loro? Se si escludono le strizzatine d’occhio all’universo Abrams (la stazione di servizio dell’incipit è la stessa di Super 8), pare proprio di sì. Eppure c’è un filo sottile, ma allo stesso tempo solidissimo, che lega 10 Cloverfield Lane al suo predecessore: entrambi sono b-movie (là c’era un mostro gigante, qui… meglio non svelare la “sorpresa”) che tentano di riconfigurare il genere dall’interno, facendolo assaporare al pubblico da nuove prospettive. Pur non azzardando nulla sul piano visivo come fece Cloverfield (e per fortuna, dato che di found footage se ne sono visti pure troppi in questi anni), il film di Trachtenberg riesce a costruire una tesa atmosfera di paranoia e terrore, senza mai scivolare nel gratuito. La protagonista (Mary Elizabeth Winstead) dopo un incidente in auto si risveglia prigioniera in un bunker sotterraneo. A portarla lì il suo soccorritore (John Goodman, spaventoso e indimenticabile), che dice di volerla proteggere da una catastrofe che ha spazzato via tutto il resto dell’umanità. Credere o meno al bizzarro personaggio? L’idea del rifugio sotto terra è imparentata con Lost, e anche la tesi è la stessa: quello che dovrebbe proteggerci dai “mostri” all’esterno serve solo a mettere in luce l’orrore che è dentro di noi. L’ennesima lezione sulla psicopatologia di una certa America di provincia paranoide e violenta, che ci ricorda che i mostri sono già presenti in questo mondo. Nulla di nuovo sul piatto probabilmente, ma anche così non è poco: un film di serie B solido e ben interpretato, teso e politicissimo come si usava un tempo, che non si perde in chiacchiere e arriva al dunque senza troppi fronzoli. E se alla fine l’impressione può essere quella di essere stati presi in giro, se si decide però di stare al gioco si è ripagati pienamente. Cloverfield è questo in realtà: una sorta di serie antologica, una Twilight Zone 2.0, sotto cui raggruppare un ciclo di racconti legati dal comune denominatore del fantastico e dello straordinario, ma vissuti dal punto di vista di protagonisti “comuni” e umanissimi.

voto_4

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".