JASON BOURNE
(Regia: Paul Greengrass, 2016, con Matt Damon, Alicia Vikander, Julia Stiles, Vincent Cassel, Tommy Lee Jones)

L’ex killer della CIA Jason Bourne (Matt Damon) avrà pure riottenuto la memoria, ma davvero non riesce a trovare pace, trascorrendo quel che rimane della sua esistenza lontano dalla civiltà, battendosi in sanguinosi combattimenti clandestini. La ricomparsa in scena di un altro agente che in passato lo aveva aiutato (Julia Stiles) getta sale su ferite per Bourne ancora aperte: il furto di dati segreti della Cia svela retroscena sul passato di Jason, sul ruolo avuto dal padre nel suo arruolamento nell’Agenzia, su vendette private ancora irrisolte. E su un nuovo progetto segreto che prevede la massiva invasione della privacy del cittadino comune, in cui è coinvolto un giovane magnate dei media tecnologici (Riz Ahmed) in combutta con il direttore della Cia (Tommy Lee Jones). A quasi dieci anni dall’ultimo capitolo, senza contare il fallimentare spin off (The Bourne Legacy) che la gettava sulla fantapolitica, la saga dell’agente segreto creato da Robert Ludlum torna nelle mani del regista che più di ogni altro l’ha plasmata, donandole un’identità (soprattutto visiva) ben precisa: Paul Greengrass. La sceneggiatura di questo nuovo capitolo dedicato alle avventure del tormentato killer governativo, scritta da Greengrass assieme a Christopher Rouse di fatto non aggiunge né toglie nulla a quanto già detto dai film precedenti, e non possiede l’urgenza “politica” di Supremacy e Ultimatum, usciti in piena era Bush Jr. senza risparmiare stoccate al governo di quegli anni, che li rendevano qualcosa in più degli ennesimi giocattoloni alla Mission: Impossible. La vera, e determinante, differenza la fa l’occhio di Greengrass capace, come pochi altri oggi, di imprimere all’azione e alla sua messa in scena, una dinamicità e una fisicità davvero impressionanti. Jason Bourne è cinema action ridotto all’essenzialità più esemplare, come il suo taciturno protagonista, che abbozza una manciata di frasi nell’intera pellicola, sorta di versione aggiornata del samurai metropolitano del Driver di Walter Hill. E’ l’azione, il movimento, a contare davvero, di certo non gli snodi logici di uno script che se analizzato al dettaglio presenta più di una falla. Ma non importa, perché Jason Bourne, ancora più di un film-manifesto come Mad Max: Fury Road, è costruito esclusivamente attorno a tre colossali sequenze d’azione che lasciano a bocca spalancata per la loro complessità e messa in scena. L’infinito inseguimento-fuga nelle strade di un’Atene infiammata da una rivolta civile, il confronto tra Bourne e la sua nemesi (Vincent Cassel) tra i tetti londinesi, e infine il confronto a Las Vegas che raggiunge nuove ed esilaranti vette di distruzione urbana, tra auto travolte ed accartocciate l’una sull’altra. Magari ci sarà qualcuno che obietterà che tutto ciò non fa grande un film, ma rispetto a decine di altri anonimi colleghi Greengrass mostra una visione dell’azione, del cinema e in definitiva del mondo (si vedano altre sue opere più personali al riguardo) ben precisa. Perfetto, come sempre nel cinema del regista, tutto il cast di volti di “contorno”, dall’algida e ambigua Alicia Vikander, al cattivo Cassel, sino a Riz Ahmed e Bill Camp che sembrano usciti direttamente dal serial che li vede attualmente protagonisti, The Night Of. Sui titoli di coda, immancabile, una nuova versione di Extreme Ways di Moby. (ap)
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