BLAIR WITCH

(Regia: Adam Wingard, 2016, con James Allen McCune, Valorie Curry, Callie Hernandez, Brandon Scott, Corbin Reid)

BLAIR WITCH

A 17 anni dagli eventi del primo film (il secondo orribile capitolo viene ignorato), in cui un terzetto di documentaristi alle prime armi si inoltrava nei boschi di Burkittsville alla ricerca di una fantomatica “strega” locale per non fare più ritorno, il fratello di uno dei tre decide di ripercorrere gli stessi luoghi con alcuni amici e un ricco armamentario tecnologico (videocamere, gps e addirittura un drone) per chiarire l’accaduto. Ma la strega di Blair è ancora nei boschi, ad aspettare nuove vittime.
Sequel fuori tempo massimo di un film che ha rilanciato il found footage, scombussolando il linguaggio dell’horror e sfruttando le potenzialità dell’era pre-internet e pre-social, con una campagna promozionale basata sul fatto che gli eventi narrati fossero realmente accaduti. Una colossale bufala in cui era caduto il pubblico del 1999 (The Blair Witch Project è il film più remunerativo della storia, 250 milioni di dollari incassati e budget di soli sessantamila). Ma più di una sciarada ad hoc: saggio sull’ambiguità e la paura dell’ignoto, dove l’elemento pauroso è fuori campo e la disgregazione dei protagonisti avviene più per motivi interni al gruppo che soprannaturali, lezione che il primo Paranormal Activity ha imparato bene. Impossibile replicarlo nel contesto sociale e “industriale” di oggi. Adam Wingard (all’attivo i non disprezzabili You’re Next e The Guest) si pone in linea con le traiettorie teoriche dei remake-sequel-reboot di J.J. Abrams: dell’originale propone una versione pressoché identica con qualche aggiornamento delle tecnologie. Rievoca la lunga e noiosa introduzione esplicativa, il campeggio notturno funestato da atroci suoni in lontananza, i rametti voodoo: irrobustendone la componente spaventosa, dilatandola oltremodo (la sequenza nella casa è un assalto ai sensi), giocando con il buio, la paura dell’altezza, la claustrofobia (la protagonista che avanza nel cunicolo sempre più stretto e lurido non si dimentica), più qualche spruzzata body horror e un briciolo di acida ironia, rendendo i personaggi abbastanza odiosi. In questo modo Wingard realizza l’unico sequel “sensato”, non necessariamente il migliore: un aggiornamento lineare che non pretende di dire cose nuove o stravolgere il genere alle fondamenta e che azzera il lato ambiguo. Per questo rischia di essere irricevibile dal pubblico odierno, cresciuto tra la bassa macelleria dei film della serie Saw e gli spettri di The Conjuring. (ap)

voto_3