LA CASA DELLE BAMBOLE – GHOSTLAND

(Regia: Pascal Laugier, 2018, con Crystal Reed, Emilia Jones, Anastasia Philips, Taylor Hickson, Mylène Farmer)

LA CASA DELLE BAMBOLE – GHOSTLAND

Cos’è la paura? E anzi, meglio: cosa fa paura? Per Pascal Laugier la risposta non è certo l’attesa dello svelamento, ma lo svelamento stesso: in un percorso che da quel capolavoro di Martyrs porta dritto a questo Ghostland, è chiaro che per l’autore è importante mostrare tutto e far risiedere in quel tutto il senso dello sguardo e la natura della violenza come mezzo espressivo della catarsi sociale. Laugier ha alcuni padri artistici putativi apertamente riconosciuti: Argento e Bava in primis, arrivando a citazioni visive di Lucio Fulci, per un cinema che si aggroviglia intorno ad un concetto chiave, la crudeltà dello sguardo e le estreme conseguenze della violenza come atto metafisico. Raffinato e contorto allo stesso tempo, estremo ed elitario (il suo non è certamente un cinema accessibile a tutti), il poco prolifico autore – gira più o meno un film ogni due/tre anni – declina le sue storie attorno al concetto di sdoppiamento: della personalità, dei piani di realtà, del significato dell’atto fisico. Ghostland fin dal titolo ama portare fuori strada: l’arte del depistaggio è portata avanti fino alla fine per un film che non parla di fantasmi, come suggerisce il titolo, o quantomeno non di quelli che ci si potrebbe aspettare in un horror. E depista soprattutto l’uso della linearità del tempo. Senza spaventarsi né arretrare di fronte a nulla (come ad esempio l’eccessivo didascalismo di alcuni passaggi che però, a conti fatti, sembra necessario), Ghostland ci parla del potere allucinatorio del sogno, e di quanto seducente possa essere il desiderio: in un efficacissimo sovraccarico sensoriale, il film è sapientemente costruito per spiazzare ad ogni svolta lo spettatore, cambiando in continuazione quadri logici di riferimento, giocando a rincorrere l’attenzione mantenendo la tensione sempre altissima, ma soprattutto a raccontare la propria storia mantenendo sempre il significato su più livelli. Un po’ come faceva Martyrs, che ogni volta finiva solo per ricominciare daccapo in altri contesti narrativi, Ghostland aggiunge uno schema sempre più difficile ogni volta che porta a compimento quello precedente: agganciando il divertente McGuffin delle scatole cinesi alla chiave del film, ovvero la rimozione, meccanismo sfuggente e delicato della mente umana, che nel rimpiattino con l’alienazione tiene vivo, dentro ognuno di noi, quel confine labilissimo fra sanità e follia. (glf)

voto_4