Uomini che sono uomini, fragili e violenti.
A Most Violent Year, malgrado le apparenze, non è un affresco “storico” e non ambisce a esserlo. Non scatta una fotografia di un determinato momento o passaggio importante attraverso una vicenda in qualche modo esemplare (la stessa cosa, in fondo, non la faceva nemmeno Margin Call, che parlava dei momenti immediatamente precedenti un crollo di fatto già avvenuto). Non cerca l’enfasi. Non si fa scudo della Storia e non imbastisce un discorso sulla medesima per legittimare i suoi uomini e le sue donne come eroi o antieroi.
Invece di privilegiare quella che potremmo definire “la narrazione onnisciente”, il regista Chandor si avvicina alla storia dei suoi personaggi con un atteggiamento simpatetico, umanista, ma non antropologico. Non forza i tempi né la mano. Non si fa prendere dall’ansia di dire, di spiegare, sottolineare, additare. Né più né meno, fa affiorare i caratteri, con un rispetto e una discrezione rari e che mi sembrano, alla sua terza prova, uno dei punti cardinali di uno stile che va affinando(si). Un minimalismo che secondo coerenza non viene esibito, solo praticato. E che vince perché ha il coraggio di lasciare dei vuoti che tocca allo spettatore colmare. L’agire di Abel (un convincentissimo Oscar Isaac) non è mai del tutto limpido, nemmeno quando lo sembra. La moglie Anna, poi, non è un’incarnazione di Lady Macbeth (come pure si è detto), come non è “solo” l’erede di un malavitoso di successo. Tutti i personaggi, insomma, appaiono singolarmente non finiti, pennellati per successive e continue aggiunte, ma senza un disegno sottostante a irreggimentarli. È il modo di A Most Violent Year di sfilarsi dal determinismo, rimanendo una struttura aperta, un film che può prendere più strade senza per questo essere un cantiere o trasformarsi in un film manifestamente sperimentale.
Alla fine proprio questa è una delle principali ragioni del suo fascino. Consideriamo anche l’anno in cui si svolge la vicenda, il 1981. A cavallo tra due decenni (come lasciano intravedere gli ambienti urbani, gli interni domestici, l’abbigliamento, lo stesso stile adottato dal film), ma non così decisivo o impresso a fuoco nella storia americana. In fondo la storia di A Most Violent Year potrebbe essere ambientata, con le dovute variazioni, quasi in qualsiasi momento della recente storia degli USA, negli anni Cinquanta come negli anni Novanta. A Chandor, in altri termini, non interessano le congiunture, ma quelle situazioni che fanno uomini gli uomini, che li rendono fragili – ma non in genere indifesi – di fronte alle scelte da compiere. Il regista non narra con magniloquenza e con l’occhio allo sfondo, come farebbe uno Scorsese. Sono le (piccole?) azioni quotidiane a realizzare i cambiamenti, ma li producono poco per volta, con passi avanti e passi indietro, movimenti di lato e giri in cerchio. Abel cerca una sua strada, diversa dalle strade maestre, in precario accordo con principi che si vogliono solidi, ma possono vacillare a ogni svolta. Questo ritratto umanissimo, dolente ma non accasciato, figlio di un dissidio intimo quanto dell’agire incessante dei fattori esterni, si dispiega in un microcosmo nel quale il protagonista si muove cercando il (suo) punto d’equilibrio tra libertà, responsabilità, necessità di collaborazione (se vogliamo, secondo tradizione filosofica americana). Una ricerca che non ha forse fine, e si imbatte solo in compromessi momentanei, che si presentano (davvero inevitabilmente?) nel nome di una violenza sorda e dolorosa.
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