Il disordine del nuovo ordine mondiale.
La possiamo girare come vogliamo, in su e in giù e in lungo e in largo, ma le ragioni per le quali Allarme Rosso (Crimson Tide) fu maciullato e rimosso dalla critica ai tempi della sua uscita, sono abbastanza misteriose. O meglio, si potrebbero riassumere in due questioncine: la nomea del regista (che però veniva da due film guardati con interesse come Una Vita al Massimo e L’Ultimo Boyscout) e il taglio che poteva sembrare ancora di propaganda da guerra fredda, coi russi ridotti a nemici senza volto – proprio come i sovietici di pochi anni prima – e sconsiderati al punto da scatenare l’olocausto nucleare.
Comunque sia, Allarme Rosso è un film tutt’altro che da trascurare. Non tanto per ciò che dice da un punto di vista politico, per l’appunto (benché vent’anni dopo le faccende legate al ruolo di ex-superpotenza della Russia siano ancora in gran parte irrisolte), ma perché è un film che si rivela ottimamente in grado di riflettere sulla natura del potere e, ancor di più, sul suo uso in un sistema che, per essere il “nuovo ordine mondiale”, come allora voleva la vulgata clintoniana, si dimostra particolarmente confuso proprio nell’orizzonte dell’unica superpotenza rimasta. Allarme Rosso è un film sull’America e sull’insieme di regole che la caratterizza. “Siamo qui per difendere la democrazia, non per esercitarla” sentenzia con trattenuto cinismo il comandante del sommergibile interpretato da Gene Hackman. E il comandante in seconda impersonato da Denzel Washington altro non fa che rovesciare questo assunto, ritenendo che esercitare la democrazia sia indispensabile se la si vuole difendere: ma questo non significa che butti giù dal trono anche il suo superiore. Il prevedibile confronto tra i due uomini si svolge secondo un ensemble di norme, principi, condotte, a colpi di “signore” e “è un ordine”. Non per mero senso dello spettacolo, intendiamoci, ma perché tra i due si svolge un corpo a corpo tra patrioti e ufficiali dello stesso esercito, che si possono scontrare all’ultimo respiro, giammai annientarsi, tentare strenuamente di superarsi ma in alcun modo provare ad annichilire l’altro. Un po’ come, ci sia concesso, accadeva (forse meno lucidamente) in Codice d’Onore di Rob Reiner, già presentato in questa stessa rubrica.
Lo spettatore non americano sente in maniera distinta che, malgrado non possa fare a meno di parteggiare per il democratico e più prudente Denzel Washington, il coriaceo e molto meno gradevole Gene Hackman ha le sue ragioni, per sbrigative e terribili che siano. Figuriamoci come si può sentire il pubblico statunitense, che nelle diverse sensibilità dei due militari vede incarnati altrettanti lati del suo DNA psicologico modellato da decenni di muro contro muro con lo spauracchio del comunismo e della guerra atomica. In tal senso non mostrare mai i nemici, nemmeno nelle sequenze di scontro tra sottomarini, diviene splendidamente funzionale a trasformare il film di guerra in dramma da camera, costringendo a dipanare la matassa delle identificazioni (e delle rimozioni) invece che inserirsi nel solito e stucchevole solco della difesa del mondo civile contro l’avanzata delle forze del male. Notevole poi che Scott appaia perfettamente consapevole dei precedenti con cui giocoforza si deve confrontare: e che lo script risolva i paragoni in modo candidamente ironico con le sorridenti citazioni di film sui sommergibili ormai entrati nell’immaginario quali Mare Caldo di Wise e Duello nell’Atlantico di Dick Powell. Da notare in questo che le facce di contorno al dramma principale sono di primissimo ordine: Viggo Mortensen, James Gandolfini, George Dzundza (quest’ultimo a cavallo tra anni 80 e 90 ha avuto parti per niente insignificanti, una per tutte il detective partner di Michael Douglas in Basic Instinct). Che volere ancora da un film d’intrattenimento come questo?
È tuttavia nella costruzione, come nel sornione e contraddittorio scioglimento, che Allarme Rosso offre davvero il meglio. La battaglia tra sommergibili è inevitabilmente ripetitiva e dall’esito ovvio? Niente paura, a tenere desta l’attenzione ci sono i duelli, all’inizio solo verbali, tra i due protagonisti, che come fossero politici alle elezioni devono conquistarsi il seguito dell’equipaggio, spesso lambendo un tema classico del cinema “marinaro”, quello dell’ammutinamento. Il modo in cui le alleanze e i gruppi si coagulano e sfaldano a ripetizione, oltre a garantire una suspense continua, pone in chiaro l’essenza del film come divertissement sulla democrazia quale prova di abilità, equilibrio muscolare di forze che si danno battaglia senza quartiere e in spazi di manovra ridottissimi per marcare il rispettivo territorio (gli ambienti angusti e labirintici del sottomarino ne sono l’emblema più tangibile). Il gran finale di fronte alla commissione d’inchiesta, apparentemente un controsenso (una rampogna che si risolve in una promozione e un elogio), mette in luce poi la natura tutta finzionale del processo democratico e l’occultamento delle incoerenze che ne sta alla base. Insomma, un testo teorico di un certo interesse sotto le mentite spoglie di un action dagli esiti scontati in partenza. Ripeto: che volere di più?
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