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ALLIED – UN’OMBRA NASCOSTA

ALLIED – UN’OMBRA NASCOSTA

Allied foto4

La storia e il mezzo-cinema.

Nel 1942, nel nord Africa, una spia canadese (Pitt) e una componente della resistenza francese (Cotillard) uniscono le forze per compiere un attentato ad un ufficiale nazista. Nel frattempo però finiscono per innamorarsi, sposandosi l’anno seguente a Londra. Quella che però poteva sembrare l’inizio di una nuova, felice, vita viene provata dalle continue attività di intelligence di lui, e dal dubbio, instillatogli dai superiori, che la bella moglie possa in realtà essere una spia al soldo del nemico. Quale sarà la verità? Servirà portare avanti le indagini per conto proprio?
Robert Zemeckis continua nella sua esplorazione del cinema di genere americano, e dopo aver affrontato fantascienza, animazione, commedia, dramma, western (se così si può definire il terzo episodio di Ritorno al futuro), thriller e avventura, si cimenta ora con il cinema bellico e, soprattutto, con il melò. E si conferma il più “sperimentale” ed audace tra gli autori della sua generazione, quello più incline a credere e a confrontarsi con le possibilità del cinema. Appoggiandosi ad una sceneggiatura ultra classica e tradizionale di Steven Knight (da La promessa dell’assassino di Cronenberg a Il sapore del successo sino al serial tv Peaky Blinders è tra i nomi più gettonati del momento, ma sorge il dubbio che i suoi lavori funzionino bene solo se affidati alle mani dei registi giusti), Zemeckis utilizza il massimo dell’artificio per immergere il suo spettatore nel cuore di una storia immortale. Come e più che ne Le verità nascoste, dove giocava ad omaggiare Hitchcock per smontarne i meccanismi dall’interno, Zemeckis qui prima cita Casablanca e poi ancora il maestro Hitch, finge di ripudiare le armi del cinema digitale ma in realtà le fa sue e le piega alle ragioni del suo cinema: e come forse nessun altro regista odierno ha la capacità di guardare al cinema del passato per poter dire qualcosa su quello del presente (e del futuro). Chi altro, e chi prima di lui, ha impiegato le avveniristiche tecnologie della performance capture (applicate a racconti tradizionali, a loro modo conservatori, quali Polar Express, A Christmas Carol da Dickens, o La leggenda di Beowulf) per ribadire l’importanza e l’essenzialità del fattore umano all’interno del nuovo cinema digitale? Siamo lontani quindi da giochi cinefili sterili e autoreferenziali come possono essere The Good German di Soderbergh o Grindhouse della ditta Rodriguez-Tarantino, ma dobbiamo semmai confrontarci con un autore che abbraccia a piene mani la classicità di un cinema mai dimenticato affrontandola con la consapevolezza di un autore post-moderno. Sia detto, inutile attorcigliare la discussione attorno a pragmatismi teorici: Robert Zemeckis, e lo ribadisce in Allied, con i suoi virtuosismi, i suoi movimenti della macchina da presa che paiono così naturali quando in realtà sono di una complessità e una ricerca incredibile (basti pensare alla sequenza d’amore in auto, con i protagonisti che si abbandonano alla passione mentre all’esterno infuria una tempesta di sabbia), crede in primo luogo nelle sue storie ed è li che vuole far entrare lo spettatore. E lo fa mettendo in scena un thriller romantico, ma anche un anacronistico melò, dove nulla è quello che sembra, dove lo scarto tra il sospetto del protagonista e quello del pubblico in sala si giocano in un rapporto di mutua condiscendenza, dove si accetta il gioco della finzione, dell’implausibile (quell’alba digitale, così da cartolina, com’era il tramonto fordiano che chiudeva War Horse del collega Spielberg, altra pellicola che si fregiava dell’aura di classicismo ma voleva essere altro), dove non contano tanto i mezzi (e nel cinema di Zemeckis il mezzo-cinema è sempre e solo stato un tramite per raccontare una storia, e talvolta la Storia, come in Forrest Gump) quanto la capacità di immergersi in quel mondo, in quelle atmosfere, di creare un’emozione. In questo raffinato meccanismo, in cui Zemeckis si avvale di una struttura consolidata e di una coppia di star affermate e glamour (forse alla ricerca di un pubblico ormai invisibile e apatico), in cui nulla è come appare, dove la realtà si sgretola all’insegna di menzogne e inganni, a venire ribadita è l’importanza di un valore universale, talvolta doloroso, come l’amore.

voto_5

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".