Il piano inclinato.
Rispetto al suo Sibyl – Labirinti di donna (2019, reperibile su Mubi) in cui permanevano schematismi fastidiosi e durezze tipiche di un’autrice che si considera tale ma che non è ancora in controllo dello stile, Justine Triet fa un passo avanti davvero maiuscolo. E se rimangono alcuni vezzi, non è detto che siano sempre da ritenere tali: per esempio, il cognome del defunto di Anatomia di una caduta è Maleski come quello di un personaggio del film precedente, ma si tratterà certo di un omaggio all’attore che lo impersonava, Gaspard Ulliel, perito lo scorso anno a seguito di un incidente di sci.
Il plot del film di Triet, Palma d’oro a Cannes, è quasi scheletrico: l’insegnante e aspirante scrittore Samuel viene trovato morto dopo una caduta dal terzo piano: si è gettato? È stato un incidente? O qualcuno, la moglie scrittrice di successo, lo ha ucciso? A 45 anni e appena al quarto lungometraggio, la regista francese appare in grado di dare forma ma anche e soprattutto tempo al suo racconto, sfruttando i 150 minuti del film per rafforzarlo, anziché diluirlo come si verifica in fin troppe opere contemporanee. L’effetto che Triet ottiene e in particolare cerca non è infatti tanto quello di disorientare lo spettatore nell’ottica di una narrazione inaffidabile (perché sottrae alla vista elementi e informazioni essenziali della trama: questo sarebbe ancora un artificio di sceneggiatura, e piuttosto abusato), quanto di riorientarlo e assertivamente provocarlo a voler scoprire di più sulla relazione malata della coppia protagonista e sulla sua proiezione all’esterno e nei confronti del figlio undicenne.
Mi sembra innanzitutto una dimostrazione di rispetto per il pubblico: anziché sbattergli forte sul grugno la sua insipienza, che sarebbe sensazionalistico come il processo a cui è costretto ad assistere per buona parte del film, Anatomia di una Caduta lo prende per mano e lo fa scivolare su un piano inclinato fatto di omissioni (la protagonista Sandra sotto l’incalzare del pubblico ministero ammette soltanto poco per volta le sue reticenze e dà l’idea di avere sempre una buona ragione per esse, almeno a lume di buon senso, così riducendo a una misura più sopportabile il senso di estraneità e, parimenti, convinzione in chi osserva). La vera e impercettibile caduta, forse.
Il tema del whodunit, peraltro travestito da what happened, si intreccia così in modo agile, benché mai leggero (altro pregio che ai detrattori suona come un difetto), con quello dell’autofiction che moglie e marito perseguono, spesso vampirizzandosi anziché spalleggiandosi e completandosi: qui ci possono stare, poniamo, tanto Ingmar Bergman che Emmanuel Carrère, ma il fuoco del ragionamento si situa ancora oltre, nell’accettazione dei compromessi che entrambi fanno (si pensi solo all’uso dell’inglese come lingua neutrale, che poi in realtà proprio tale non è) e che sembra perderli prima che possano avvicinarsi, per non potersi infine più trovare. Come dire che svelarsi porta a profondità difficili da accettare e che ci abbattono e distruggono ben più di quanto ci facciano del bene. Tutto questo la buona letteratura e il miglior cinema di ogni tempo ce l’hanno spiegato in ogni salsa possibile, è vero. Ma basta la mancanza di originalità delle conclusioni per lagnarsi di un’opera piena di sfaccettature che per molti altri versi si erge alquanto più in alto della media?
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