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Adolescenti costretti a crescere in fretta.

Anima Bella è un piccolo grande film, di rara umanità e intensità, il secondo capitolo di un’ideale trilogia sul misterioso e complesso rapporto tra genitori e figli, come ha dichiarato il suo autore. Dopo Manuel, il suo pluripremiato esordio nel cinema di finzione del 2017, Dario Albertini torna a parlare di adolescenti costretti a crescere in fretta e ad assumersi enormi responsabilità per aiutare e stare accanto ai loro genitori. Se in Manuel il protagonista, un ragazzo di 18 anni, lasciava il centro educativo dove era stato inserito in seguito alla reclusione in carcere della madre per aiutarla a trascorrere due lunghi anni agli arresti domiciliari, in Anima Bella una ragazza, Gioia, coetanea di Manuel, è costretta a stravolgere la sua vita e la sua routine quotidiana per rimanere accanto al padre e sostenerlo nella complicata lotta contro la ludopatia. Un tema fortemente sentito dal regista, sceneggiatore e musicista romano che aveva esordito nel cinema documentario quasi dieci anni fa, nel 2013, con Slot – Le intermittenti luci di Franco, un’opera incentrata sulla dipendenza dalle slot machines di un venditore ambulante di formaggi che partiva dalla Sardegna alla ricerca della moglie e della figlia, fuggite da casa esasperate dalla malattia dell’uomo. La ludopatia, fenomeno preoccupante di cui si parla troppo poco e che i governi italiani non hanno mai ostacolato e combattuto dal momento che porta nelle casse dello Stato ingenti quantitativi di denaro, ha un costo elevatissimo a livello sociale. Le vittime non sono solo le persone affette da questa irrefrenabile dipendenza ma anche i loro familiari, spettatori attoniti e impotenti di questa caduta nella spirale del gioco dei loro cari. Gioia è interpretata da una giovane e stupefacente attrice esordiente, Madalina Maria Jekal, scovata per puro caso dal regista in un ristorante di Tarquinia dove la ragazza (nata in Romania dove ha vissuto fino ai cinque anni d’età prima di trasferirsi in Italia, elemento poi ripreso in sceneggiatura) lavorava come cameriera. Il suo volto e l’intensità del suo sguardo hanno stregato il regista che in quel periodo cercava, senza successo, l’attrice protagonista per il suo nuovo film. Nella prima parte Anima Bella ha un’ambientazione rurale, con la protagonista e il padre impegnati ad allevare pecore e a produrre formaggio. Gioia, orfana di madre, è una ragazza forte e solare, ben inserita nella piccola e solidale comunità di appartenenza, sempre pronta ad aiutare gli altri. Il legame col padre, Bruno, è solido e intenso ma la dipendenza dell’uomo verso il gioco lo mette a repentaglio e provoca nel piccolo nucleo familiare serie difficoltà a livello economico. Sarà Gioia, determinata ad aiutare il padre in un lungo e difficile percorso di riabilitazione, a dover affrontare un cambio di vita ostico e radicale, trasferendosi in città per rimanere vicina a Bruno, inserito grazie alla figlia in una comunità di recupero. La ragazza passa da una vita di campagna a una routine metropolitana piuttosto misera e triste fatta di corse in bicicletta per consegnare pizze e potersi così permettere un piccolo e mesto alloggio in città, per rimanere accanto al padre impegnato in una lotta contro la dipendenza dal gioco che non sappiamo se riuscirà a vincere o meno. Gioia è una ragazza atipica, più matura e responsabile dei suoi coetanei, cresciuta in un contesto rurale e periferico assai differente rispetto a quello in cui nascono e si formano la maggior parte degli adolescenti. Dopo Manuel Albertini volge nuovamente il suo sguardo sul rapporto genitori – figli in un’ottica rovesciata in cui sono i secondi a prendersi cura dei primi e a sostenerli nei loro lunghi e difficili percorsi riabilitativi. Il regista, autore di tre documentari prima di approdare al cinema di finzione, possiede uno sguardo e una sensibilità fuori dal comune. Manuel e Anima Bella sono contraddistinti da una ricerca di realismo e autenticità (il sonoro e i dialoghi “sporcati”, talvolta di difficile comprensione, la resa granulosa dell’immagine ottenuta grazie alla scelta di girare in pellicola) derivanti dalla formazione dell’autore che proviene dal cinema del reale e ne è rimasto fortemente legato e influenzato. Anche il finale-non finale, aperto e sospeso, rientra in questa ostinata e coraggiosa ricerca improntata al realismo. Una chiusa quasi inattesa, a ricordarci che nella vita di tutti i giorni è raro e inusuale imbattersi nel lieto fine.

Presentato all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, all’interno della sezione Alice nelle città (unico titolo italiano in concorso), il film esce nelle sale italiane il 28 aprile distribuito dalla Cineteca di Bologna e in quelle francesi, dove è stato acquisito da Le Pacte, a inizio luglio.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.