Romania, Europa.
Si scrive RMN ed è un palese richiamo alla Romania (anche se il riferimento diretto andrebbe alla Risonanza Magnetica Nucleare che il padre di Matthias va a fare a un certo punto), ma si può leggere tranquillamente Europa, anni Venti del nostro secolo. Il nuovo lungometraggio di Cristian Mungiu, a distanza di sei anni da Un padre, una figlia, permette al regista di tornare in quella Transilvania che sulla mappa appare solo come un qualunque angolo remoto dell’Est affondato tra i monti e i boschi, eppure dal vivo ribolle di umori che la avvicinano al cuore pulsante di un continente in crisi di valori e di identità, con il carico di rabbia e violenza che questo smarrimento porta con sé.
E infatti il film comincia in Germania, dove l’aggressività di Matthias, emigrato come tanti altri connazionali in cerca di lavori migliori, si manifesta improvvisa, in reazione a un’offesa di scarso peso: ma prosegue in forma strisciante, sottilmente ondivaga e così tanto più lugubre nel freddo del villaggio natale nel quale le regole dell’Unione Europea fanno comodo quando si tratta di avere i fondi destinati all’imprenditoria locale, ma sono anche snobbate e pronte a essere aggirate dagli stessi che le sfruttano mentre gran parte delle poche centinaia di abitanti le detesta perché consentono alla diversità – qui sotto l’aspetto di alcuni lavoratori immigrati dallo Sri Lanka – di minacciare il quieto vivere delle comunità locali.
Un po’ come accadeva anche in Scene di Caccia in Bassa Baviera (1969) di Peter Fleischmann, dove un giovane in sospetto di omosessualità era il capro espiatorio delle tensioni irrisolte di un villaggio bavarese, l’Altro rappresenta una minaccia in quanto può cambiare non tanto la vita e il panorama culturale di un luogo quanto la percezione di sé e del proprio habitat. Poco conta quanto quel punto di vista sia avulso dalla realtà (come Matthias, infatti, chi ha la possibilità se ne va all’estero alla ricerca di stipendi migliori), l’ostacolo più insormontabile ad ogni sviluppo e crescita rimane l’inconcludenza unita ad un certo fatalismo esistenziale, sentiti dai protagonisti come la loro stessa cifra umana. È così che il padre di Matthias erra preda della narcolessia mentre il figlioletto Rudi non parla più perché traumatizzato da una visione nel bosco, forse un animale ma forse anche un uomo. Lo stesso protagonista saltabecca dall’ormai deteriorato rapporto con la moglie alla vecchia relazione sessuale e senza un futuro con l’amante Csilla, a sua volta donna in carriera ma irrimediabilmente sola. Tutto rimane fermo, immobile, alla giornata, mummificato nell’immutabilità delle relazioni sociali che si sono stabilite tra i concittadini.
I protagonisti di Animali Selvatici vivono immersi in un’accidia che ne divora ogni possibilità ed è il risultato di una stasi soprattutto morale (tema portante del cinema dell’autore) innescata dalla paura del cambiamento. Normale che in tanto timore facciano capolino i mostri, qui ben raffigurati sotto forma di orsi: ma anche, più radicalmente, con le fattezze dei partecipanti all’assemblea di paese in cui la camera fissa per quasi un quarto d’ora ha la capacità inesorabile di offrire il fermo immagine di una brutalità e di un’assenza di umanità senza rimedi. Più che sottolineare l’animosità razzista di questi uomini e donne, a Mungiu importa dipingere la loro povertà di sentimento, il loro distacco da ogni spirito di fratellanza e da qualsiasi interesse che non sia il proprio, quello del momento. E non è certo per combinazione che il montaggio diluisce ogni legame e rivela una comunità che non ha un centro (lo stesso subitaneo spostamento della riunione dalla chiesa ad altra sede civica mostra l’indifferenza del parroco, del sindaco e di ogni autorità agli esiti del dibattito).
Con questo film Mungiu porta avanti il ragionamento sul proprio paese con una coerenza che pochi altri cineasti dimostrano: gravati e spesso distrutti dal peso del loro passato, i suoi personaggi non sembrano davvero capaci di proiettarsi in un qualsiasi avvenire e di questo incolpano tutto ciò che li circonda e che li spia dal buio, con sguardi enigmatici e torvi, come nella scena conclusiva. Come si chiedeva il poliziotto alla fine di Oltre le colline, quando finirà l’inverno?
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