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Arrival. Parla con loro.

Dopo essere stato presentato in Concorso a Venezia 73, finalmente esce sui nostri schermi Arrival, ottavo lungometraggio (in Italia purtroppo ne sono stati distribuiti solo quattro) del regista canadese Denis Villeneuve che stavolta si confronta col genere sci-fi dopo aver dato prova, con Prisoners e Sicario, di saper maneggiare con notevole talento e personalità il thriller e il crime.
In seguito alla comparsa sul nostro pianeta di dodici, lunghissimi ed enormi, oggetti volanti di forma ovoidale, la linguista Louise Banks viene ingaggiata dall’esercito americano per cercare di stabilire un contatto con gli alieni. L’umanità si ritrova in preda al panico e al caos, gli episodi di disordini e violenza aumentano e si susseguono inarrestabili senza che i visitatori extraterrestri abbiano fatto o manifestato intenzioni malevole o belligeranti. I governi dei vari paesi in cui sono arrivati gli alieni faticano a comunicare e a collaborare tra loro. Per Louise è una corsa contro il tempo per cercare di entrare in comunicazione con gli extraterrestri e scoprire il motivo che li ha spinti ad arrivare sulla Terra, per scongiurare il pericolo di una guerra globale.
Prima di buttarsi anima e corpo nel sequel di Blade Runner, impresa titanica e rischiosa, specie per uno come Villeneuve che ha dichiarato di detestare l’idea di dirigerli ma di non essersi potuto rifiutare dal momento che il film di Ridley Scott è uno dei suoi preferiti di sempre, sembra quasi che con Arrival il cineasta canadese abbia voluto farsi le ossa con un genere con cui non si era ancora cimentato nel corso della sua ventennale carriera. Non è facile approcciarsi ad un genere come la fantascienza, soprattutto se ci si vuole confrontare con quella meno “fracassona” e più ambiziosa di stampo filosofico-umanista-intimista, che nel corso del XX secolo ha conosciuto vette inarrivabili rappresentate da titoli come Ultimatum alla Terra, Solaris, 2001: Odissea nello spazio e Incontri ravvicinati del terzo tipo, entrati da tempo nel nostro immaginario collettivo. La prima parte del film di Villeneuve è bella e suggestiva, tutta giocata sul mistero e sull’attesa sprigionati dall’arrivo degli immensi e ovoidali gusci volanti che sembrano galleggiare e fluttuare a pochi metri da terra. Gli elementi spettacolari, di maggiore e facile presa sul pubblico, sono centellinati e limitati alle mastodontiche e misteriose astronavi, in favore della centralità del linguaggio e dell’incontro tra due specie diverse che hanno un differente modo di scrivere, di comunicare e di concepire il trascorrere del tempo (lineare per gli umani, circolare per gli alieni). La protagonista, interpretata da un’intensa, dolente e umanissima Amy Adams, è l’unica in grado di cogliere il significato della presenza aliena sul nostro pianeta e di sviluppare con loro una forma di comunicazione che nasce prima di tutto dalla sua curiosità e apertura mentale, dall’accettazione del diverso contrapposta alla chiusura e alla paura, al caos e all’ostilità che ben presto si diffondono presso la popolazione mondiale. I governi non si dimostrano da meno, impazienti di conoscere le reali intenzioni aliene senza dare il tempo a studiosi e scienziati di svolgere al meglio il loro lavoro e sempre più restii a dialogare tra loro (figuriamoci con chi viene da un altro pianeta) e scambiarsi e condividere informazioni e scoperte. In un simile scenario, di fronte ad un’apparizione percepita subito come una potenziale minaccia esterna, emergono subito gli aspetti peggiori dell’essere umano, l’innato istinto ad attaccare e colpire per primi, ben prima di capire e comprendere le intenzioni altrui. Solo chi come Louise si dimostra voglioso di rischiare e mettersi in gioco, d’interagire senza farsi accecare e ottenebrare dalla paura, può stabilire una forma di contatto e comunicazione e di percepire un modo totalmente diverso dal nostro di concepire il tempo, elementi essenziali per decifrare i numerosi flashback e flashforward disseminati lungo il film.
Di grande impatto le musiche composte dall’islandese Jóhann Jóhannsson, già al fianco di Villeneuve in Prisoners e Sicario, un tappeto sonoro oscuro e dissonante che inquieta e disturba, così come l’efficace resa visiva degli incontri (del terzo tipo) con le creature aliene, avvolte perennemente da una nebbia lattiginosa da cui emergono le forme e i tentacoli, in un palese rimando e omaggio al film horror The Mist diretto da Frank Darabont e ispirato a un racconto di Stephen King.
Arrival, tratto dal racconto Story of Your Life dello scrittore statunitense Ted Chiang, non è privo di difetti, forse ha troppa carne al fuoco ed è eccessivamente sovraccarico nella seconda e ultima parte, dove emerge la volontà di stupire e l’urgenza di chiudere il cerchio di una narrazione appunto non lineare, per rendere evidente ed esplicito ciò che nella prima parte è impenetrabile e imperscrutabile, insondabile e misterioso come la nebbia lattiginosa che avvolge le creature eptopode. Nonostante ciò si tratta di un buon esempio di sci-fi al femminile, profondo e toccante nel voler ribadire l’importanza e la centralità del dialogo e della comunicazione con se stessi, i propri simili e con chi all’apparenza è diverso da noi.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.