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AVATAR – LA VIA DELL’ACQUA

AVATAR – LA VIA DELL’ACQUA

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Io ti (ri)vedo.

Dopo tredici anni James Cameron ci riporta su Pandora e al contempo, a distanza di un quarto di secolo, ci fa nuovamente salire a bordo del Titanic mentre infuria la battaglia.

Finalmente io ti vedo, finalmente noi ti vediamo e comprendiamo in un attimo come mai ci sia voluto così tanto tempo per realizzare uno dei sequel più attesi della storia del cinema. E di sequel all’altezza, se non superiori al prototipo originale, Cameron se ne intende “abbastanza” dopo aver realizzato nel 1986 Aliens – Scontro Finale, il suo terzo film da regista, war-monster movie capace di rivaleggiare (ma in territori e generi diversi) col primo Alien di Ridley Scott e cinque anni più tardi Terminator 2 – Il giorno del giudizio, dove ampliava e teneva testa al primo, straordinario, capitolo che aveva creato lui stesso nel 1984.

James Cameron è un creatore di mondi, un demiurgo che attinge, prende a prestito e sa rielaborare elementi e tematiche presenti in altre opere dirette da maestri come Hayao Miyazaki (1) o scritte da autori fondamentali come Herman Melville (2), per dar vita a un suo immaginario, potente e indelebile. Come il suo predecessore del 2009 anche Avatar – La via dell’acqua è un incredibile manifesto ecologista e antispecista, un inno alla natura e al mondo animale messi a repentaglio dall’avidità dell’uomo bianco occidentale che non esita a distruggere gli ecosistemi di pianeti lontani, dopo aver depredato la Terra, e a sterminare animali e popolazioni indigene per perseguire le sue finalità economiche. La nuova impresa titanica di Cameron è un atto d’amore incondizionato nei confronti del cinema e della sua capacità di destare e suscitare “maraviglia”, di trasportare gli spettatori all’interno di nuovi mondi immaginari, così lontani eppure così vicini al nostro. Avatar – La via dell’acqua parla di padri e madri, di figlie e figli, di fratelli e sorelle, di bambine nate per miracolo e di bambini abbandonati da padri che ritornano sotto altre forme e sembianze. È un film su una famiglia allargata, che decide a malincuore di migrare quando viene minacciata, su un ex marine americano rinnegato che dopo aver guidato in battaglia i Na’vi è costretto ad abbandonare la sua casa e a rinunciare al ruolo di capo tribù per difendere la sua famiglia da una nuova minaccia rappresentata dall’ennesimo arrivo su Pandora degli uomini del cielo (Cameron rovescia e ribalta la fantascienza classica: per lui siamo noi gli invasori alieni).

Con Avatar – La via dell’acqua il regista canadese ha vinto una nuova sfida, ha spostato ancora più in alto l’asticella, ha ampliato il suo (e di conseguenza il nostro) immaginario spostando l’azione e il fulcro narrativo dalle foreste pluviali agli oceani, dalle montagne fluttuanti agli abissi marini. Cameron s’immerge – e noi con lui grazie a un formidabile, immersivo e portentoso 3D – nelle acque delle isole di Pandora, alla scoperta dell’incantevole flora marina e delle meravigliose creature acquatiche, tra cui gli imponenti e maestosi Tulkun, che ne popolano gli abissi, regalandoci sequenze destinate a lasciarci senza fiato, a bocca aperta e occhi spalancati (io ti vedo). James Cameron è ossessionato dall’acqua, elemento ricorrente in buona parte della sua filmografia a partire da The Abyss, a cui sono seguiti Titanic e il documentario Ghosts of the Abyss. Oltre a essere un regista Cameron è anche un esploratore, capace dieci anni fa di immergersi in solitaria a 11mila metri (un record) sotto la superficie dell’Oceano Pacifico alla guida del suo sommergibile DeepSea Challenge.

È difficile, quasi impossibile, descrivere a parole le molteplici emozioni e sensazioni che questo secondo e fluviale (tre ore abbondanti che volano via in un baleno) capitolo di Avatar riesce a donarci nel corso della visione. Probabilmente il nuovo sforzo produttivo del regista canadese è già entrato a far parte della storia del cinema, spazzando via in un colpo solo il MCU. Un’opera che mira a sorprendere e incantare il pubblico di ogni età e nazionalità, costruita dal suo autore per superare se stesso, per abbattere e frantumare i suoi record precedenti in un’epoca fuori tempo massimo in cui il cinema al cinema è in crisi nera. Avatar – La via dell’acqua è il film di cui avevamo bisogno per tornare a vedere, per stupirci e emozionarci nel buio di una sala gremita, tutti insieme col naso all’insù, per un rito collettivo che si era andato perduto in tempi di pandemia. James Cameron ha rimesso la sala al centro, ha ridato importanza alle immagini, da guardare e ammirare a occhi spalancati (io ti vedo: è giusto ribadirlo ancora una volta). Chi oserebbe vederlo per la prima volta a casa senza passare dall’esperienza totalizzante e immersiva della sala? Cameron è deciso e intenzionato a riportare le masse al cinema, a rendere di fatto impossibile la fruizione del suo ultimo capolavoro sul piccolo schermo di un tablet o di un PC (ma anche su quello più grande di una smart TV). Cameron finora è sempre stato in grado di fare miracoli, c’è solo da augurarsi che sappia compiere una nuova magia per salvare l’industria cinematografica, riportando perfino in auge la visione tridimensionale per un solo film – il suo – per un’esperienza unica e irripetibile a livello visivo e sensoriale.

(1) Gli esoscheletri di Avatar (e prima ancora quelli di Aliens) sono simili a quelli di Conan – Il ragazzo del futuro, le montagne fluttuanti di Pandora sono riprese da Laputa – Il castello nel cielo. L’ambientalismo e l’animalismo sono tematiche da sempre care al regista giapponese.

(2) Cameron tra le tante intuizioni felici e riuscite presenti in Avatar – La via dell’acqua ha inserito una sotto-trama che guarda e omaggia Moby Dick, uno dei capolavori indiscussi della letteratura americana, considerato l’apice artistico dello scrittore e poeta newyorkese.

voto_5

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.