Il fenomeno Barbie.
L’altro film che ha avuto negli ultimi mesi un successo di pubblico paragonabile a Barbie è Super Mario Bros. Entrambi sono due prodotti fondamentali all’interno dell’infanzia di chi ha almeno 20 anni. Sul film animato, l’analisi del suo successo si può esaurire qui, per Barbie andrebbero messe in campo competenze da sociologo che i critici over 50 non hanno (per dire, il bombardamento dei meme, dal basso, che ha contribuito largamente a crearne il fenomeno) e che è giusto sia così, dato che dovrebbero occuparsi di cinema e non di qualsiasi argomento dello scibile umanistico. Noi cinefili abbiamo più di una colpa: la voglia di essere nella contemporaneità, e abbracciarla, entusiasti di risultati al box office e trascinati da presunti prestigi autoriali, ci fa perdere di vista ciò che elogiamo. Qualsiasi non appassionato di cinema a cui io abbia parlato male di questo film, mi ha risposto che “è Barbie, cosa pretendi?” Laddove la critica “ufficiale” ha invece tentato di tirar fuori da un fenomeno pop effimero (quindi con nulla di “colto”) più di ciò che ha: e questo solo perché è stato scritto da un regista che un tempo aveva ben altra sensibilità (Baumbach) e perché al terzo film si è già Autori (Gerwig) dopo un esordio pietra tombale del mumblecore (Lady Bird), e l’ennesimo adattamento di un classico per il grande pubblico (Piccole Donne). Lo status di Autore non va messo in questione anche se le opere non hanno nulla che le lega tra loro. E anche appigliandosi ai nomi, quasi nessuno ha sottolineato che se Barbie può piacere è solo grazie allo sfarzo infuso nel film dai due scenografi (Sarah Greenwood e Katie Spencer) e che dietro alle immagini così limpide c’è Rodrigo Prieto, direttore della fotografia per Scorsese e Inarritu. Se proprio si vuole parlare di opera significativa, bisogna dare a loro il credito di averla resa tale.
Agli albori del postmoderno, Giuseppe Turroni si chiedeva provocatoriamente se Arizona Junior non fosse solo una grande pubblicità per pannolini. Passata tanta acqua sotto i ponti, con 100 milioni di dollari di marketing (che include Xbox colore rosa e promozioni tramite airbnb di hotel a tema) la provocazione è diventata realtà. Perché Barbie, con un montaggio frenetico sempre più vicino allo scrolling di tiktok che ai classici a cui Gerwig dice di ispirarsi, è un film fatto solo di scene madri, citabili e memabili, sacrificando qualsiasi approfondimento psicologico su personaggi che, nelle intenzioni, dovrebbero essere qualcosa in più di bambole e che rimangono puro impulso sensoriale: Ken fesso poi cattivo poi normale, non c’è altro tra le righe. La voglia di voler dare a tutti i costi un messaggio non eleva questo spot pubblicitario, ma lo potenzia nella sua campagna marketing: arrivare a più fasce di pubblico, da chi sorride al cameo di Dua Lipa alla citazione di Stephen Malkmus, o chi applaude per John Cena. Non ci sarebbe nulla di male solo se Gerwig, per giostrare l’intera operazione, avesse tenuto a fuoco altri modelli (Pier Maria Bocchi su Cineforum ha giustamente citato John Waters e altri nomi potrebbero aggiungersi: Schegge di follia, Election, giù giù fino a Todd Solondz, per il quale Gerwig ha anche recitato) per fare un prodotto davvero dissacratorio nei confronti dell’american way of life: che invece nemmeno contesta, riducendo il suo agit-prop solo a un monito contro la discriminazione gender, creando però così un’altra forma di discriminazione (non c’è un personaggio che sia transessuale o gender fluid, quindi, ragionando con la logica dell’inclusività, Barbie non lo è).
La conclusione, con tanto di montaggio stile reel ma analogico, coi ricordi familiari e d’infanzia, invece, ci dice come dietro tutte le battute ad effetto ci sia l’ennesimo film ad una sola direzione che deve per forza sottolineare il suo prendersi sul serio abbandonando qualsiasi presunta leggerezza: ma, duole dirlo, Gerwig, coi suoi finali assolutori e cerchiobottisti, non dimostra una visione drammaturgica matura (o la reprime solo per avere più consensi). È chiaro che se ha una linea autoriale, è rendere woke qualsiasi classico dell’infanzia: prima la rilettura di Piccole donne, poi inserire una chiave di lettura esistenzialista (è il termine che ha usato la critica estera, me ne dissocio) in Barbie, infine la (presunta) normalizzazione della fiaba di Biancaneve e chissà quali entusiasmanti cambiamenti apporterà alle Cronache di Narnia. Ha avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto (Hollywood) al momento giusto, siamo noi che dovremmo cominciare a ignorare spot spacciati per film pur di sentirci adeguati ai tempi.
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