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Alejandro-González-Iñárritu-–-Birdman-2

Un groviglio tragicomico di arte e vita.

Alejandro González Iñárritu, dopo i dolorosissimi drammi che lo hanno reso famoso, con Birdman (in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia) vira verso la commedia tinta di dramma esistenziale, rimpastando e provando a dare nuova linfa al binomio arte-vita, facendo scivolare l’una sull’altra per raccontarci il disperato e tragicomico tentativo di rivalsa di un ex divo di Hollywood. Riggan Thomson (il redivivo Michael Keaton), dopo anni di oblio, punta a rifarsi un nome mettendo in scena e interpretando a Broadway un testo di Raymond Carver, con tutte le pressioni e le aspettative del caso. Riggan, che un tempo era stato celebre per aver interpretato il supereroe Birdman (esattamente come Keaton, che diede il suo volto ai due Batman diretti da Tim Burton oltre vent’anni fa), compie di fatto un percorso di tipo classico, ma lo fa nel senso inverso, da ovest (Hollywood) in direzione est (Broadway), ossia verso il luogo in cui si fa “vera arte”.

Iñárritu ci trascina dentro e fuori dalla testa di Riggan-Birdman attraverso un unico quasi-pianosequenza, procedendo con passo febbrile e inquieto, seguendo i suoi personaggi in lungo e in largo, spostandosi ovunque, fuori e dentro il teatro in cui va in scena lo spettacolo.
Birdman è straripante: i momenti onirici e la voce interiore del protagonista si alternano di continuo nel movimento nervoso e ossessivo della macchina da presa digitale, che sta costantemente addosso ai personaggi mostrando ogni cosa di un microcosmo che sa di sconfitta; il dramma sfocia nella commedia e la commedia sfocia nel dramma in un turbinio pressoché ininterrotto di immagini luccicanti e sporche, ammalianti e kitsch.

Birdman è una vorticosa girandola di ex mogli, figlie trascurate e quindi incasinate, nuove fiamme, attori-prime donne, produttori pressanti, che evolve in un crescendo di pathos, di momenti bassi e imbarazzanti, di idiosincrasie, di popolarità riacquistata in un attimo grazie a video di passanti fatti col telefono e postati in rete, di un attore ferito e incazzato che si aggira in mutande intorno al teatro, che convive con l’ombra incombente del fallimento e della paura di mandare tutto a puttane, e sopra ogni cosa, col disperato bisogno di essere amato.

Il film riesce in diversi momenti ad essere magnetico, ma il regista messicano calca forse troppo la mano: la sua messa in scena sovraccarica e pesantemente esibita, che come si è detto a tratti può anche stordire, alla fine ci lascia in qualche modo un retrogusto di incompiutezza, in un limbo di incertezza, perché in fondo Birdman, malgrado l’enorme dispiegamento visivo-narrativo, non vola alto quanto ci saremmo aspettati.

voto_3

Fabrizio Catalani
Ha fatto e fa cose che con il cinema non c'entrano nulla, pur avendo conosciuto, toccato con mano, quel mondo, e forse potrebbe incontrarlo di nuovo, chi lo sa. Potrebbe dirvi alcuni dei suoi autori preferiti, ma non lo fa, perché non saprebbe quali scegliere, e se lo facesse, cambierebbe idea il giorno dopo. Insomma, non sa che dire se non che il cinema è la sua malattia, la sua ossessione, e in fondo la sua cura. Tanto basta.