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BLACKHAT

BLACKHAT

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Cinema di indugi e di fughe, di ossequi alla norma e di trasgressioni.

Ci sono attimi nel cinema di Michael Mann che sembrano non contare (o contare fin troppo), attimi in cui lo sguardo sembra svagato, perso, ozioso, addirittura lezioso. Prendiamo una scena di Miami Vice per esempio: dopo pochi minuti dall’inizio del film, l’informatore di Sonny e Rico tenta per disperazione di gettarsi sotto un autotreno. Cosa fa la macchina da presa in quel preciso momento? Scappa altrove, in direzione opposta, inquadrando per un istante un punto in lontananza, lasciando al solo sonoro il compito di raccontare l’azione.

Momenti come questi si ripetono nei film di Mann con una frequenza irregolare, ma sicura. Anche in Blackhat, quando Tang Wei prende un taxi che scivola fuori campo, o ai limiti di esso, la cinepresa si sofferma su un cartellone pubblicitario. E durante l’irruzione nel covo dei banditi l’obiettivo è catturato per una frazione di secondo da un quotidiano rimasto piegato su un tavolino. Non si tratta certo di ammiccamenti allo spettatore (l’esibizione dell’intertestualità, anche quando questa c’è, è quasi del tutto assente nel cinema di Mann), ma svelando in modo plateale la presenza della mdp – sia pure per qualche frazione di secondo – la regia si permette lussi che sembrerebbero negati al film d’azione (di cui il cinema del regista e produttore di Chicago è una sorta di quintessenza e insieme di superamento). Divagare, contemplare, per il tempo di un batter d’occhio consentirsi di fermarsi, di “essere”. E sognare forse. Prendersi quell’intervallo, quel frammento che forse non si dovrebbe nemmeno pensare di trattenere per sé. Almeno non durante un’azione di forza, una scazzottata, un conflitto a fuoco. Ma una delle grandi forze dei film di Mann è questa. Violare i tempi, dilatarli (in forma più che mai evidente con i ralenti durante le sparatorie, appunto), talvolta sincoparli. Una pratica del genere ha effetti sensazionali quando la macchina si sofferma sui (ma viene da dire “si attacca ai”) volti. Quell’esitazione, quella briciola di tempo in più significa spesso un mondo morale, una scelta decisiva, uno snodo importante, un bivio fatale – il più celebre e perfetto di questi è forse in Heat, quando Neil ormai in fuga con la donna che ama indugia nel proposito della vendetta contro l’uomo che lo ha tradito: ed è una risoluzione che lo perde, cosa che lo spettatore stesso capisce all’istante. Altre volte è solo un’infrazione deliberata, una libertà inaudita, e quindi in primis sommamente enigmatica. Si pensi alla scena del coyote di Collateral. Che per tanti, non a caso, è solo un’incomprensibile belluria.

Blackhat, di cui si è detto che sia un film “diverso” rispetto ai precedenti (per quanto funzioni come evoluzione di una tendenza già presente in Miami Vice) non fa che proporre una lunga sequenza di scelte, di alternative, di fughe da qualcosa e per qualcosa (la libertà, l’amore, la sopravvivenza). Ecco il motivo per cui Blackhat è forse il Mann estremo: perché occorre continuare a prendere decisioni, fare ripetute scelte di vita, pensare bene e in tempi sempre più stretti. Lo scambio di battute tra Nick e Lien nel locale, purtroppo reso malamente nel doppiaggio in italiano, lo esplicita in maniera tale che pare un manifesto di vita (e direi che solo in questo senso ha un significato correlarlo a quello di Strade Violente in cui James Caan offriva un nuovo inizio a Tuesday Weld). E forse lo è, un manifesto, per come suona consequenziale nel cinema del suo autore. Ma forse è anche un vicolo cieco imboccato in piena consapevolezza e per coerente fedeltà a una poetica che, muovendo dall’iperrealismo, lo supera non solo per splendore di messinscena – nella quale Mann non è comunque secondo a nessuno – ma soprattutto per il progressivo intensificarsi delle deviazioni, per l’infittirsi delle situazioni in cui nel suo cinema si ripetono i dilemmi e i crocevia per i personaggi. Al punto che di Blackhat si è parlato come di un film “sempre in fuga”. Senza platealità, a dire il vero. Non c’è infatti, in quest’ultimo film di Mann, una sequenza come quella della corsa in motoscafo verso Cuba che spaccava in due Miami Vice. Non c’è nemmeno un episodio come quello di Nemico Pubblico in cui Johnny Depp si aggirava invisibile in una stazione di polizia. Ma in Blackhat i vuoti sono così tanti, e così “spessi”, che il film sulle prime rischia di disorientare. E comunque, non c’è tempo. Nemmeno per due amanti di dirsi addio per la strada in una Hong Kong notturna che, pochi istanti dopo, si trasformerà in un inferno di fuoco. Ancora un pugno di attimi e l’addio può diventare infatti sodalizio, con un rovesciamento di prospettive: proprio come nel finale (in)convenzionalmente “vincente”, in cui però la fuga e lo scomparire dalla vista rimangono le sole opzioni praticabili. Si può essere al 100% con qualcuno, come era per Colin Farrell con Gong Li in Miami Vice, e andarsene via lo stesso. Oppure l’opposto. Scelte, soltanto scelte, continue decisioni da prendere in pochi momenti.

Un cinema fatto di indugi e di fughe, di ossequi alla norma (del cinema di genere) e di trasgressioni. Un cinema che scappa via e forse va lontano, ma che lascia un tale carico negli occhi, una tale intensità e un tale peso che ostinarsi a ignorarlo (come hanno fatto la critica e il pubblico, in America e anche da noi) significa soltanto non avere la pazienza di scavarne la superficie.

voto_5

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.