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BLACKKKLANSMAN

BLACKKKLANSMAN

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Vedere un film come Blackkklansman in Italia mette in campo una serie di problemi di tipo culturale. La retrodatazione della vicenda (ambientato nel ’72, ma i fatti si svolsero nel ’79) permette a Spike Lee di tirare in ballo, in un dialogo, il cinema cosiddetto blaxploitation per sottolineare quanto fosse poco apprezzato dalle Pantere Nere (1), per via di una stereotipizzazione machista dell’uomo di colore. E’ un filone che, benché sia stato regolarmente distribuito nelle sale italiane, a casa nostra non ha lasciato alcuna traccia (a eccezione, credo, di Shaft), se non tra gli appassionati di musica funk e i cinefili tarantiniani: si capirà quindi che la maggior parte del pubblico stenta a comprendere tutta una serie di riferimenti specifici, con tanto di nomi di attori e di locandine a tutto schermo. E il cinema occupa un posto fondamentale in quest’ultima opera di Spike Lee, soprattutto quello che il Nostro NON apprezza: si parte con una sequenza tratta da Via Col Vento e si arriva fino agli iscritti al KKK che ridono vedendo Nascita di una nazione. Almeno lo studente medio del DAMS, quest’ultimo lo riconoscerà. Un altro problema (ricorrente nei film di Spike Lee) lo offre ovviamente il doppiaggio: difficile rendere in italiano le differenze tra lo slang e la lingua dei bianchi nelle conversazioni telefoniche di Ron Stalworth (John David Washington), e così si perde parte del divertimento. Così come si grida d’orrore quando Adam Driver recita in italiano il testo di Say It Loud, I’m Black and I’m Proud di James Brown.

Riferimenti a parte, la vera ragione per cui Spike Lee decide di ambientare la vicenda proprio in quegli anni è per una sorta di nostalgia per un’era in cui si costituivano gruppi di rivolta per combattere il razzismo. Chiaro che il film vuole essere una chiamata alle armi nell’era Trump: le immagini reali (che chiudono Blackkklansman) delle recenti manifestazioni anti-razziste fanno cortocircuitare la visione allo stesso modo in cui in American Sniper accadeva con le riprese del funerale di Chris Kyle; al cinema, come in qualsiasi altra forma d’arte, gli opposti si attraggono. E  il discorso finale di Trump si collega idealmente a quello tenuto all’inizio da Alec Baldwin, due modi di usare le immagini reali per instaurare legami col presente ed elevare la portata del film dal semplice affresco d’epoca. Soprattutto per dire che il mondo esterno non è cambiato, ma si è affievolita la voglia di coalizzarsi e combattere.

Da un punto di vista stilistico, se il montaggio è al passo coi tempi per come moltiplica in maniera del tutto postmoderna i punti di vista, lo stile di regia non può non richiamare alla mente la ruvidezza di certi film anni 70 di Don Siegel o Sidney Lumet, e non solo per la scelta di girare in pellicola. Famoso per i suoi primi piani frontali, questa volta Spike Lee riprende spesso i volti di profilo con una fotografia che adopera una gamma di colori piuttosto ristretta e poco ricercata, finché quest’unione di moderno e postmoderno esplode nella sequenza del dialogo telefonico tra Ron Stalworth e David Duke. Lo split screen viene frammentato in più modi all’interno del quadro e il punto di vista cambia ad ogni battuta: in un film di Jack Hill, ciò sarebbe stato impossibile.  La sceneggiatura non raggiunge la perfezione dei suoi capolavori del passato (Fa la cosa giusta, Inside Man…) e qualche personaggio sembra tirato via frettolosamente: sia nelle Pantere Nere sia tra i membri del KKK (e forse, la deformità fisica di alcuni, metafora di quella morale, sconta qualche banalità di troppo). Però, si apprezza il coraggio di affrontare ciò che per Spike Lee rappresenta uno dei più grandi mali d’America (il KKK) anche con una buona dose d’ironia all’interno dei dialoghi; si sa che il punto di forza dei suoi migliori film (si pensi anche ai poco ricordati Summer of Sam e Jungle Fever, oltre ai due prima citati) lo raggiunge “quando fa scontrare i neri coi bianchi, quando mette in scena anche i bianchi (ed è capace di costruire personaggi memorabili)” (2): di fatto il razzista Felix Kendrickson (Jasper Pääkkönen) per carisma e ostinazione vince sulla bella Patrice Dumas (Laura Herrier). E, nonostante permanga la sensazione che molto materiale sia stato tagliato in sede di montaggio, il gioco dello sdoppiamento lascia aperte interessanti zone di ambiguità (cosa spinge il protagonista ad arruolarsi nella polizia? cosa sappiamo del passato di Adam Driver?).

(1) Infatti, non viene citato il film-cardine (seppure prodotto in maniera underground) Sweet Sweetback’s Baadasssss Song (1971, Melvin Van Peebles) che invece pare avesse raccolto calorosi consensi tra le Pantere Nere.

(2) Alberto Pezzotta, Bus – In viaggio, Segnocinema n. 85, maggio/giugno 1997, pag. 44

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.