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Quando il sequel batte l’originale: la saga del vampiro diurno Blade.

Quando ancora i fumetti portati al cinema, o come vengono chiamati oggi i “cinecomic”, non erano garanzia di incasso, quando la tecnologia digitale non era ancora abbastanza all’avanguardia da permettere certi azzardi tecnici, quando Kevin Feige e la Marvel non erano l’impero cinematografico e mass mediale che sono oggi sotto l’egida Disney, quando si aveva ancora il coraggio di rischiare e dare personaggi popolari in mano a registi talentuosi e fuori dagli schemi, ecco, tornando indietro sino ad allora, circa quindici anni fa, che sembrano pochi ma sono tantissimi se si considera la velocità con cui muta l’”industria”, potremo capire sino in fondo le ragioni del successo di una pellicola come Blade II.

Prima della pioggia di film sui supereroi a cui siamo abituati oggi, gli anni 90, se si esclude il ciclo su Batman di Burton (e Schumacher), non hanno offerto molto in questo senso. X-Men (2000) è stato il primo tentativo di conferire una dimensione adulta, attuale e politica ad un fumetto Marvel. La regia venne affidata al promettente Bryan Singer, il successo di pubblico non tardò ad arrivare, aprendo le porte ad una lunga serie di sequel e ad altri film ispirati a fumetti di successo, e poco importa se questo primo tentativo di conferire spessore a super-umani in tutine di latex ridicole non fu del tutto riuscito, anzi a dirla tutta, abbastanza timido e fallimentare su tutti i fronti. Prima dei mutanti di Bryan Singer l’unico personaggio della Marvel ad essere portato sul grande schermo nel corso della passata decade (nel 1998 ad essere precisi) fu il cacciatore di vampiri Blade, creato da Gene Colan e Marv Wolfman agli inizi degli anni ’70. Un personaggio minore e poco noto al grande pubblico, un azzardo, come dicevamo sopra. Sorta di risposta a fumetti alla sottocultura blaxploitation diffusasi negli States in quegli anni (assieme ad un altro personaggio Marvel come Luke Cage), Blade possiede tutti i poteri dei vampiri e nessuno dei loro punti deboli. La sua natura è tormentata, è per metà umano, invecchia come tutte le altre persone, ma non sa placare la propria sete di sangue. La sua missione di vita è uccidere più succhiasangue possibile, senza risparmiarsi in violenza e colpi bassi. Una sorta di versione soprannaturale del Punitore.

Per la regia del mestierante Stephen Norrington, e su sceneggiatura di David S. Goyer, il primo film su Blade è uno spiccio b-movie che a sorpresa si rivela anche un buon successo di pubblico. Effetti visivi ingegnosi benché tirati al risparmio (la rapida degenerazione dei vampiri colpiti dalla spada del protagonista), colonna sonora rap-techno a palla (celebre un remix di Confusion dei New Order), ritmo serrato, qualche idea notevole (la società segreta dei vampiri che vive in parallelo a quella degli umani), e un Wesley Snipes mai così in parte. Nulla di più, nulla di meno. Il sequel si fa attendere qualche anno, arriverà solo nel 2002 (pochi mesi prima dello Spider-Man di Raimi), fortemente voluto da Snipes, anche produttore. La scelta vincente della Marvel e della New Line Cinema è affidarsi alle mani del giovane regista messicano Guillermo Del Toro, che ha alle spalle tre film horror diversissimi e tutti ugualmente interessanti. L’esordio, Cronos (1993) è già una riuscita variazione sul tema del vampirismo, tinta di tragedia e atmosfere gotico-fiabesche. Il primo film americano, Mimic (1997), è una sorta di omaggio al cinema sulla mutazione della carne del primo Cronenberg, dove gli scarafaggi dopo essere stati modificati geneticamente assumono fattezze simili a quelle dell’uomo e lo attaccano. Nonostante diverse carenze e semplicismi in fase di sceneggiatura, Mimic mostra già alcune delle caratteristiche proprie del cinema di Del Toro, dall’amore per gli effetti animatronici alle ambientazioni claustrofobiche e oscure, spesso in tunnel o fogne. Nel 2001 è poi la volta dell’acclamato, e più personale, La spina del diavolo, prodotto da Pedro Almodòvar: ambientato in un orfanotrofio durante la guerra civile spagnola e quasi un preludio al capolavoro Il labirinto del fauno, il film è un altro horror, ma sui generis, una storia di fantasmi irrequieti ed esseri umani, che con la loro violenza e le loro guerre, condannano i più piccoli alla perdita dell’innocenza. Con un curriculum come questo, Del Toro non è forse la scelta più scontata per portare al cinema il sequel di una fortunata pellicola su un supereroe targato Marvel Comics. Ma si rivela invece l’arma vincente di un seguito – merce rara – molto più riuscito ed emozionante dell’originale.

Goyer, che di fumetti al cinema se ne intende (è sempre lui ad aver scritto la trilogia sul Cavaliere oscuro di Nolan, così come i due film su Ghost Rider), questa volta azzecca in pieno la sinergia tra le psicologie e le dinamiche delle tavole disegnate, e consegna al suo protagonista la missione più difficile: allearsi con i nemici vampiri per combattere un avversario ancora più letale, i Reapers, capitanati da Nomak (Luke Goss), specie di mostruosi vampiri mutanti che uccidono e si nutrono dei componenti della loro stessa specie. Blade deve così tenere a freno la propria sete di vendetta e formare un team con una squadra di killer professionisti, per dare la caccia ad un nemico comune. Una sorta di “sporca dozzina”, o ancora meglio un “mucchio selvaggio” di bastardi e assassini, pronti a tradirsi a vicenda e senza troppi scrupoli. I richiami ad Aldrich e Peckinpah non sono messi a caso: sono solo due tra le tante reminiscenze cinefile che vengono alla mente guardando il film di Del Toro. Il regista recupera una dimensione anacronistica da film di genere di matrice anni ’70, quasi carpenteriana nel suo piglio tritatutto e post-moderno, in cui il tasso di testosterone è altissimo, anche se bilanciato, in quest’occasione più che nel film precedente, da una sana e consapevole dose di ironia. Del Toro innesta nel film anche risvolti romantici e fatalisti inediti per il personaggio, come la mancata e impossibile storia d’amore con la bella vampira Nyssa (Leonor Varela), condannando il protagonista ad un destino solitario e tragico in linea con quello di tanti altri eroi degli anni duemila. Ma rispetto all’originale si spinge ancora di più il pedale sullo splatter e sugli effetti raccapriccianti: Del Toro mostra ancora una volta il suo amore per il cinema della mutazione, la nuova carne, e rende gli inquietanti Reapers i veri e propri protagonisti del film. Realizzati attraverso una raffinata commistione tra CGI e pupazzi animatronici, i Reapers, con la loro gigantesca e orripilante bocca dentata, sono dotati di una “tangibilità” organica assente nel cinema horror americano da oltre un decennio. Tanto più che Del Toro si ricorderà del design delle sue creature per la realizzazione dei vampiri del serial televisivo The Strain (2014) da lui scritto e prodotto.

Il regista trasforma così il sequel di un film tratto da un fumetto in un nostalgico quanto sentito atto d’amore nei confronti di un cinema di genere appartenente al passato, e ormai caduto nell’oblio. Grazie a Del Toro ogni aspetto della realizzazione di Blade II è implementato rispetto al prototipo, dalla scelta dei nomi del cast (con la scelta di “resuscitare” il comprimario Kris Kristofferson fatto fuori nel primo film, e con l’aggiunta di Ron Perlman – futuro Hellboy sempre per l’amico Del Toro – e Norman Reedus – ancora lontano dai fasti di The Walking Dead), alla visionaria e plumbea fotografia, curata da Gabriel Beristain (abituale collaboratore di Derek Jarman), che rende la notte luminosa e il giorno mai così cupo, fino alle coreografie dei combattimenti e delle sequenze action in generale (nelle quali viene brevettata per la prima volta la L-Cam, una macchina da presa che segue in traiettorie impensabili e “aggancia” tra loro movimenti impossibili compiuti dagli attori, integrandoli con dei loro stunt realizzati al computer) e alle scelte in colonna sonora (stavolta curata da Happy Walters, che chiude gloriosamente una trilogia di soundtrack della contaminazione degli stili inaugurata con Cuba Libre – La notte del giudizio (1993) -rock&rap – e proseguita con Spawn (1997) – elettronica&rock – e qui all’insegna di collaborazioni tra artisti rap e maestri dell’elettronica: tra quelle più riuscite Massive Attack & Mos Def, Fatboy Slim & Eve, Moby & Mystikal, BT & The Roots, Gorillaz & Redman ecc).

Purtroppo totalmente da evitare il terzo e ultimo capitolo della saga, Blade Trinity, diretto dallo stesso sceneggiatore (ma regista scarso) David S. Goyer, nel quale Blade deve sconfiggere addirittura Dracula in persona, ma dove tutto, a partire da uno svogliatissimo Snipes, pare di infima categoria. Ora i diritti del personaggio sono tornati definitivamente alla Marvel, ma siamo pronti a scommettere che qualsiasi futuro si riservi al vampiro diurno Blade, nulla potrà eguagliare la scheggia di cinema impazzito e fuori dal tempo che è il sequel firmato da Guillermo Del Toro.

voto_4

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".