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BULL DURHAM – UN GIOCO A TRE MANI

BULL DURHAM – UN GIOCO A TRE MANI

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Shine on you crazy diamond.

Bull Durham – Un gioco a tre mani è un film sullo sport? In parte. È un film sportivo, certo, ma più che sui valori, le gratificazioni e le delusioni che lo sport può dare, mette l’accento sullo scontro tra le aspirazioni personali e l’obbligo di occupare il proprio posto. Ron Shelton, ex giocatore qui al suo esordio dietro la macchina da presa, usa il baseball, lo sport americano per eccellenza, grande rito sociale tutto a stelle e strisce, per dirci che ciò che conta è trovarsi nel posto giusto al momento giusto, soprattutto se si ha talento.

Ambientato nelle leghe minori del baseball americano (quelle in cui giocò anche il fuoriclasse del basket Michael Jordan durante la sua parentesi sul diamante, dopo l’assassinio del padre), lontano dalla ribalta della Major League e dai palcoscenici sportivi scolastici e accademici dove nascono e crescono le stelle di domani, il film si concentra su un triangolo sportivo e amoroso all’interno della squadra dei Bulls di Durham, Carolina del Nord.

“Crash” Davis (un Kevin Costner al suo primo film sul baseball immediatamente prima de L’uomo dei sogni   e prima del suo acclamato esordio alla regia, Balla coi Lupi) è un veterano sul viale del tramonto, strappato dai Bulls dal suo posticino al sole in un’altra franchigia. Sveglio, colto e con personalità, gli viene affidato il compito di fare da chioccia a Ebby “Nuke” LaLoosh (Tim Robbins), spaccone e immaturo “cervello di gallina, ma con un braccio da un milione di dollari”. Questo è l’obiettivo conclamato della storia, per il quale si prodiga anche il personaggio di Annie (Susan Sarandon), affascinante letterata per la quale il baseball è una religione: sceglie un promettente giocatore all’inizio di ogni stagione e gli fa da concubina/musa ispiratrice, quasi si trattasse di uno scrittore o di un poeta.

Forse lontano dalla mentalità europea (come testimoniato anche dal recente e – per noi – ostico L’arte di vincereMoneyball, in cui il meccanismo dietro le quinte è più importante di giocatori, tecniche e tattiche impiegati sul campo), il baseball è fatto di attese e di poche, ma potenti, deflagrazioni. Si può essere catcher in alcuni momenti della partita e battitori in altri, ma non è mai permesso uscire dagli schemi. Il momento è tutto, e ineluttabilmente definisce l’individuo – come sa bene il golfista-filosofo Roy McAvoy, protagonista dell’altra pellicola firmata dall’accoppiata Shelton-Costner, Tin Cup. Lo sa bene anche Crash, che il suo momento l’ha già visto passare da un pezzo. Lui che si considera un raffinato, in mezzo a tanti energumeni, ed è certo delle sue convinzioni (“Credo nei regali scartati la mattina di Natale e non la vigilia; credo che i romanzi di Susan Sontag siano masturbazioni mentali” afferma durante il monologo “vomitato” in faccia alla presuntuosa Annie), sa bene che tutto ciò non è bastato e non basterà a salvarlo dalla mediocrità (è stato nella massima serie solo 21 giorni).

Mediocrità che invece non è per Nuke. La tanto agognata chiamata dalla massima serie alla fine per lui arriverà, ma non certo grazie alla sua maturazione. Non ci troviamo in uno di quegli archetipici film sportivi che funzionano secondo la logica dell’underdog che riesce a riemergere dopo una caduta grazie all’etica del duro lavoro e alla ritrovata fiducia in sé e/o negli altri, se si tratta di un gioco di squadra. Il processo di maturazione di Nuke portato avanti da Crash e Annie è fittizio: era suo destino trovarsi sotto i riflettori principali, bastava solo attendere. Tutti interpretano il proprio ruolo, bisogna tenere giù la testa e giocare. Sintomatica è la sequenza in cui Crash insegna a Nuke come rispondere banalmente alle domande dei giornalisti: “Non c’è spazio per i personalismi, sono deleteri. Ciò che conta è il bene della squadra”.

E Crash? Realizzerà il record di home run (o fuoricampo, se preferite) nelle leghe minori, un evento che si tradurrà solamente in un trafiletto di giornale. Perché, in fondo, chi se ne frega di un record minore, distante anni luce dalla scena principale. Quella non è roba per lui. Ciò che può fare, una volta portato a termine il suo compito e appurata la sua dimensione, è coronare il suo amore per Annie, anche nel senso fisico come sottolineato dagli exploit erotici della Sarandon (lo spettatore non attende altro per tutto il film). Amore che è sempre un buon viatico se si vuole cercare un proprio posto nel mondo

voto_4

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.