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CHI È SENZA COLPA

CHI È SENZA COLPA

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Una vita tranquilla.

Il barista di Brooklyn Bob Saginowski (Tom Hardy) è un brav’uomo: gestisce un locale con suo cugino Marv (James Gandolfini, nella sua ultima interpretazione), offre da bere ai clienti abituali, salva un cucciolo di cane finito nella spazzatura, va a messa tutti i giorni, ma non prende mai la comunione. Ben presto però, nello spettatore si insinua il dubbio che nasconda qualcosa. Bob non è solo un barista: il locale appartiene alla mafia cecena che si serve a turno dei numerosi bar del quartiere usandoli come deposito di denaro sporco.
Chi è senza colpa, sceneggiato da Dennis Lehane da un suo racconto ambientato però a Boston, segue la scia di altri film degli ultimi anni a partire da Mystic River, per raccontare una tragedia classica e moderna al tempo stesso. Prendendo le mosse del suo protagonista, calmo, dalle movenze calcolate, quasi insignificante, il film disegna un tessuto sociale in cui dietro la maschera di rispettabilità che tutti indossano, si cela un’omertà criminosa di fondo. Una patina difficile da scalfire che ammanta la vita di tutti i giorni e di tutti gli onesti lavoratori del quartiere, che come risultato si rifiutano di parlare coi poliziotti. Nella prima parte si procede lentamente (un po’ come la storia d’amicizia/amore tra Bob e Nadia, interpretata da Noomi Rapace, in cui la tensione, anche sessuale, cresce senza mai venire consumata), quasi uno stillicidio; nella seconda invece il film accelera deflagrando in un finale teso e lacerante. Sono le due facce di una stessa medaglia sintetizzate perfettamente dal titolo originale The Drop: non solo il gesto di depositare i soldi illeciti nel doppio fondo dei banconi dei bar, ma drop anche come caduta accidentale, qualcosa che, goccia dopo goccia, straborda ciclicamente e va affrontata, senza distogliere lo sguardo, prima di poter tornare all’equilibrio iniziale.
Il regista belga Michaël R. Roskam (candidato all’oscar per il miglior film straniero con Bullhead) è bravo a districarsi sui due binari paralleli rappresentati dai cugini. Bob, quasi fosse un mantra, ama ripetersi che lui “è solo un barista” in modo da non confondersi con la teppa per la quale fa il galoppino; un po’ come capitava a Ed Crane in L’uomo che non c’era, lui che “tagliava solamente i capelli”, apparentemente avulso dal contesto di un mondo assurdo. Accetta il fatto che alcune volte devi sporcarti le mani anche se non lo vuoi: commettere un’azione imperdonabile agli occhi dei più solo per poter andare avanti con la tua esistenza tranquilla, scontando però la pena di una vita in solitudine. Marv invece, rassegnato a vivere con sua sorella Dottie e con un padre in stato vegetativo, è stanco di doverla affrontare. Per quel che lo riguarda, è valida l’accezione del termine drop come declino, quello che lo ha portato a perdere il bar di cui una volta era il padrone per diventare solamente un tirapiedi. Vuole vendicarsi e riacquistare il rispetto degli altri e di se stesso, a costo di “fregare” chi non si dovrebbe (cosa che puntualmente accade e fa da evento di rottura).
Per entrambi, il passato è un fantasma tragico (il punto di non ritorno è stato il rendersi colpevoli, anni prima, dell’omicidio “necessario” di un ragazzo soprannominato Glory Days, nome in qualche modo profetico). Bob tenta di espiare, mente Marv vuole risorgere. Tutto funziona, ma Roskam non è necessariamente Eastwood. Qui il classicismo prende presto la strada della “correttezza”: la regia è corretta, le interpretazioni degli attori, sempre in parte e quasi tutti curiosamente europei in quella che sembra una storia tutta americana, sono corrette, così come la sceneggiatura, con Bob che riesce a vincere la sua solitudine (tragica punizione più feroce della morte). Tifiamo per lui, nonostante la sua più che discutibile moralità, e ne siamo ben contenti, ma il dubbio che alla fine il film avrebbe potuto mostrarci dell’altro rimane. Tutto funziona in fin dei conti, perfino troppo.

voto_3

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.