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CROCEVIA PER L’INFERNO

CROCEVIA PER L’INFERNO

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Normal Life foto4

L’ossessione e il terrore della normalità.

“I wanted to know the exact dimensions of hell.
Does this sound simple? Fuck You!”
Sonic Youth – The Sprawl

0. Intro

Cosa ci è rimasto oggi del cinema degli anni 90? Esclusi i soliti blasonati autori, a guardare le uscite in home video, sembra un periodo della storia del cinema archiviato troppo frettolosamente, forse perché ancora poco vintage per vantare il fascino della riscoperta. L’opera quarta di John McNaughton non è diventata col tempo abbastanza cult da meritare un’uscita in blu-ray all’estero (pratica che è stata riservata, per dire, anche ad alcuni nostri scellerati nazisploitation) e il dvd italiano è come al solito spartano e l’edizione troppo cheap per suscitare un certo interesse nel cinefilo medio. Il film, il cui vero titolo è Normal Life, è un figlio del suo tempo, ma dimostra anche una grande conoscenza della tradizione noir e in pochi oggi se ne ricordano. L’incongruo titolo italiano vorrebbe ammiccare a un pubblico che ha apprezzato Crocevia della Morte (Miller’s Crossing, 1990) dei fratelli Coen.

1. “Tu puoi permetterti una vita normale, io dentro sto andando a pezzi”

Già dalla prima scena in flashback comprendiamo che i due protagonisti del film daranno vita a una vera e propria lotta dei sessi: Chris (Luke Perry) ci viene presentato sicuro di sè per la sua passione per le pistole, Pam (Ashley Judd) litiga, sanguina e si rifiuta di ballare. Pam è il vero baricentro del film, condannata dai suoi traumi infantili a non poter vivere la “vita normale” del titolo, che per lei è sinonimo di morte, e ad evadere ammirando le stelle e il cielo (analogamente a James Dean in Rebel Without a Cause). In una normalità di provincia fatta da anonime casette a schiera col prato verde e mediocri ambizioni, Pam è perennemente fuori contesto: invitata ad un barbecue preferisce ubriacarsi e dialogare con un bambino, al funerale del suocero si presenta coi pattini fino ad arrivare alla scena del matrimonio tra lei e Chris, un patetico tableau vivant con luce flou in cui Pam è triste e finisce in bagno a vomitare. Dietro questa superficie così eversiva, in privato si nascondono i suoi istinti autolesionisti, e arriva a sanguinare sfregiandosi con un coltello o a non raggiungere mai l’orgasmo perché di tanto in tanto strilla slogan femministi totalmente autoreferenziali: dimostrazione di come sia un prodotto del posto in cui ha vissuto, e oltre alla sua amica lesbica, questi siano i pochi mezzi che le offrono la possibilità di un rifugio dalla normalità. Normalità che è invece l’ossessione di Chris, che sin da bambino sognava di fare il cowboy guardando Rawhide e si è ben inserito nel contesto urbano e sociologico che il film descrive. Ma il suo amore per Pam si manifesta soprattutto a metà film, quando si fa licenziare sciorinando parolacce contro i suoi colleghi. Da qui comincia un rapporto di adorazione da parte di entrambi, ben sintetizzato nella bellissima sequenza in cui Pam danza armata di pistola con il suo giubotto antiproiettile: vorrebbe diventare normale come Chris, vorrebbe avere la sicurezza che lui le dà, emularlo, ma sa che ciò eliminerebbe la sua personalità, sa che non sarà mai così semplicemente perché “normale” non lo è mai stata. Un personaggio simile vive sapendo già di morire, consapevole del suo fallimento ma ferocemente attaccato ai suoi istinti vitali. Nel frattempo, come una bambina, gioca con le pistole.

2. “Sono abbastanza per creare l’universo”

Da un punto di vista di influenze cinematografiche, lo stesso rapporto che Drive (2011, N. W. Refn) ha instaurato con The Driver (1978, Walter Hill) si potrebbe ipotizzare tra Normal Life e Come un tuono (The Place Beyond the Pines, 2012, Derek Cianfrance), bel film-summa di molti luoghi e situazioni del noir degli ultimi 30 anni. In entrambi i film il protagonista comincia a rapinare le banche con metodi non violenti e i poliziotti vengono mostrati attraverso i piccoli dettagli nelle loro meschinità. Una volta che si padroneggiano le regole del gioco, esso diventa assuefazione: rapinare (troppe) banche avrà delle conseguenze disastrose in entrambi i casi. Ma Chris riesce a darsi un’aria di rispettabile normalità (è pur sempre quest’ultima la sua ossessione), e quando gestisce una libreria consiglia a un suo ex-collega The Killer Inside Me (1952) del grande romanziere noir Jim Thompson, a dimostrazione di come McNaughton e i suoi sceneggiatori-meteora (Peg Haller e Bob Schneider) abbiano piena coscienza del genere che stanno affrontando. Poi, i richiami cinefili non mancano pur non essendo ostentati. Ad esempio, la coppia dei due protagonisti fa venire subito alla mente La sanguinaria (Gun Crazy, 1950, Joseph H. Lewis), lui timido e bravissimo con le pistole, lei bionda e sessuata: ma negli anni 90 i problemi triplicano come gli argomenti trattati e la musica rock (segno dei tempi come oggi lo sono le musiche di Cliff Martinez) tende a sottolineare questo suo perenne scontro con ciò che ha intorno. Il carrello circolare nel ballo iniziale è una versione low-budget di quelli che Brian De Palma tanto ostenta in Carrie (1976). Segno di come McNaughton aggiornasse il suo stile in base alle mode dei tempi, De Palma è assunto quale modello anche per la narrazione, che inizia con un momento clou e prosegue in un unico flashback come in Carlito’s Way (1993). Ma la lezione più importante il regista l’ha imparata dalla New Hollywood: il nostro simpatizzare con due anti-eroi falliti in partenza, vivi-per-la-morte, oggi è sempre più raro così come la “selvaggeria” stilistica empatizza con i protagonisti nelle sue nevrotiche riprese con la macchina a mano o con il montaggio, che non sottolinea mai ma procede mostrandoci solo le cause. Anche questo lasciare gli “effetti” in secondo piano, è un ossessione che serve a emanciparsi dal normale cinema di genere.

voto_5

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.