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EIGHTH GRADE

EIGHTH GRADE

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EighthGrade foto1

Non esiste cinematografia più duplice di quella americana. Tutti i suoi grandi autori, e anche i meno grandi, possono essere letti in più di una direzione. Sembra dicano una verità e ne intendono un’altra. (*)

Uno dei grandi squilibri della critica cinematografica italiana attuale è il suo continuo oscillare nel confronto o tra film di generi bassi (il trash ormai non più reputato tale, dato che anche nelle accademie americane si guarda con attenzione ai nostri cinepanettoni e da noi qualcuno ha scritto anche un “elogio del filmetto”), o nel barricarsi spesso in un autorialismo rancido che elegge ad autori anche registi il cui iter spesso non costituisce un discorso coerente: nella stanca ripetizione delle forme alcuni vogliono per forza rintracciare una poetica (qualche esempio? L’elogio forsennato di tutti i De Palma, Friedkin, Schrader, e l’elenco potrebbe continuare). Eppure questo costituisce una versione ridotta di ciò che succede in un sistema produttivo complesso come quello americano, soprattutto se si evitano discorsi sui film che stanno in mezzo, come appunto è il caso di Eighth Grade. Gli elementi di interesse, già a partire dai dati esterni al testo che costituisce il film, sono molteplici: produce l’A24, distribuisce la Sony, lo presentano al Sundance (vince il premio del pubblico), ha il 98% su Rotten Tomatoes e 7.9 su IMDB, per il lancio pubblicitario ha un sito molto cool, strutturato come un tipico album scolastico (sezioni con foto, selfie, dediche, ecc). Molti di questi elementi passano inosservati da noi per il pubblico generalista (almeno a giudicare da cosa scelgono i pochi che vanno al cinema), e ciò che scoraggia i distributori è soprattutto l’impossibilità di poter contare su nomi di richiamo. L’attrice protagonista (Elsie Fisher) è un’esordiente, gli altri membri del cast sono sconosciuti, ed è anche il primo lungometraggio per il regista: tale Bo Burnham (che scrive anche la sceneggiatura, da solo). Questo nome, almeno ai giovani americani, invece, dice molto: classe ’90, youtuber con 200 milioni di visualizzazioni, stand up comedian da anni per Comedy Central e approdato anche su Netflix, la sua comicità ha trovato forma anche su disco raggiungendo la vetta delle classifiche Billboard. Enfant prodige, miracolato finché si vuole, ma sempre all’interno degli USA. Se da decenni ci si lamenta che nel cinema americano di genere il vero autore è il produttore (ma non era così anche per Lewton/Tourneur?), ecco nei credits spuntare il nome di Scott Rudin, longa manus che si cela dietro a film (da Lady Bird a quasi tutti i Wes Anderson) (1) che trattano tematiche simili all’opera di cui parliamo, ma ciò che colpisce in Eighth Grade è la padronanza dello stile, l’infrazione alla norma, l’inserirsi in un genere multiforme confrontandosi con materiali bassi e il modo in cui riflette sulla società americana contemporanea.

  1. Trasgressioni. Se ne sono accorti tutti (Variety, Hollywood Reporter, The Guardian, per citarne alcuni) che l’antesignano di Eighth Grade è Welcome to the Dollhouse (in Italia Fuga dalla scuola media, Todd Solondz, 1995) ambientato però nell’anno scolastico precedente (la nostra seconda media, per intenderci). Se già nel prototipo Solondz mostrava dodicenni con fantasie di stupro (ma incapaci di attuarle), Burnham va oltre. Mette in scena due minorenni che parlanno di pompini e di scambiarsi foto dirty su Snapchat; certo, i vari Apatow e American Pie hanno fatto di peggio, ma ci preme sottolineare che in questo caso si parla di tredicenni e non di adulti e ciò fa emergere il rimosso di una società fatta di genitori che hanno votato Trump. Non a caso, l’afasia dei rapporti tra genitori e figli è uno dei temi cardine del film. L’esordiente Elsie Fisher, del resto, è una scelta coraggiosa: per il suo personaggio di loser e per la sua mancanza di sex appeal (minorenne, faccia anonima, corpo acerbo) e fotogenia (si veda il modo in cui la fotografia accentua la sua acne). Secondo il Film Inquiry (2) l’ironia di Eighth Grade serve a non trasformarlo in un horror, e in tutte le recensioni che fanno riferimento al film di Solondz, Dollhouse viene definito un film misantropico, pessimista o bollato con altri aggettivi simili. Del resto, negli anni 90 le arti di/per gli adolescenti (musica, cinema) tendevano a sottolineare l’impossibilità dei loser di diventare conformisti dopo aver perso una battaglia contro gli altri, mentre oggi vengono assolti per la loro voglia di intraprendere una battaglia per migliorare se stessi. Anche questo è un segno dei tempi di cui Eighth Grade deve rendere conto, e che manderà pure a casa gli spettatori felici e sorridenti, ma rimane l’immagine di un’America che se prima era drogata di tv spazzatura, oggi vive nel mondo virtuale perché quello che lo circonda è un non-luogo uscito da una brutta trasmissione televisiva.
  2. Lo Stile. Una lunga zoomata all’indietro che parte dal volto della protagonista, per altro ripresa in bassa fedeltà, mentre parla confusamente dell’essere se stessi, apre Eighth Grade. Figura chiave del modernismo cinematografico è adoperare una scena iniziale che funge da riassunto a tutti i temi che verranno poi trattati: in 4 minuti questa sequenza è il ritratto efficace di un personaggio che, attraverso la snervante ripetizione di parole dal significante vuoto (quante volte sentiamo “like” nel film?) segnala la sua profonda insicurezza, la grande ansia di conformarsi (capiamo che sta parlando alla webcam in cerca di notorietà); e la commistione di zoom e bassa fedeltà, da un punto di vista metacinematografico, evidenzia il continuo distanziamento e avvicinamento di Burnham alla materia. Il film si snoda su vari piani narrativi: l’evoluzione del personaggio virtuale contro quello reale, l’immagine che contraddice quella che appare in pubblico, mischiando i media e i modi di enunciazione. Non è una novità, si dirà: bombardati come siamo da finestre virtuali e schermi, anche i film non adoperano più un solo tipo di immagine, ma è interessante notare come i video su Youtube costituiscano un link costante all’interno dello sviluppo della storia, e come essi segnalino solo una falsa crescita del personaggio, dato che le sue azioni spesso tradiscono quanto dice. La riflessione sui media è centrale, dal momento che (la cosa ha colpito in particolare gli spettatori non-americani) gli smartphone sono una presenza costante nel film, e non si erano mai viste con tanta radicalità schermate di Instagram e Twitter occupare l’inquadratura, spesso sovresposte sul volto della protagonista intenta al famigerato scrolling compulsivo. Trattandosi di un’opera prima non tutto è calibrato, ma Burnham a volte ha soluzioni registiche sorprendenti. Rispetto al tipico film adolescenziale le inquadrature durano molto più del solito: caso eccezionale, si veda la sequenza del primo dialogo a tavola tra la protagonista e suo padre in cui nel decoupage colpisce che, al posto di isolare con campo/controcampo i due attori, irrompe un’inquadratura fissa dalla durata di ben due minuti. Burnham dilata anche le sequenze (si veda il dialogo nell’auto a proposito di “obbligo o verità”): soffermarsi sul volto e sui trasalimenti della protagonista è l’unico modo per farci cogliere qualcosa di una ragazzina così poco abile a esprimere i suoi sentimenti tramite le parole.
  3. Generi e conformismi. Burnham per farci entrare nel mondo di Kayla dirige un film che non giudica, si limita a osservare e creare empatia. A volte anche sporcandosi le mani, compiendo scelte che autori più blasonati (Baumbach, Reitman) non oserebbero mai: si vedano i ralenti di cattivo gusto, con tanto di sottofondo dubstep, quando è in scena il ragazzo di cui è invaghita Kayla, o la colonna sonora con scelte midcult (la celebre Orinoco Flow di Enya). Nessun problema, può anche costituire un motivo di fascino: si prende un contesto sociale e ci si immerge in esso totalmente, accettando anche le sue brutture, le sue storture. Esso non è il nostro mondo e il film intende studiarlo. Nel suo totale conformarsi risiedono la sincerità di Eighth Grade e la sua assenza di compromessi: sincerità che invece manca in film analoghi, che si propongono anch’essi come studio di personaggi, caratteri e società, come Lady Bird (troppo assolutorio) o Un sogno chiamato Florida (troppo gratuito e koriniano nel suo confrontarsi col white trash). Sintetizzando, Eighth Grade si potrebbe collocare un gradino al di sotto di un Baumbach e almeno un paio al di sopra del miglior Apatow. Gli sbalzi, quindi, tra la freddezza di scelte narrative raffinate e l’immersione nella materia bruta, testimoniano che ci troviamo di fronte a un prodotto difficilmente traducibile e profondamente americano, che parla la lingua del pubblico a cui è destinato e ha senso solo nel suo sistema produttivo: è quello che un tempo si chiamava cinema medio. E il cinema ha bisogno anche di questo se vuole dare linfa vitale agli autori e ai generi bassi.

 

(*) La citazione è tratta da Giuseppe Turroni, Roger Corman, pag. 18, La Nuova Italia, 1977

(1) Per il curriculum completo rimando a IMDB – più di 130 film -, dato che comprende anche alcuni Coen, Fincher, Linklater, eccetera; qui ci premeva segnalare solo quelli che hanno delle analogie col film analizzato.

(2) https://www.filminquiry.com/eighth-grade-2018-review/

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.