Il film più funereo di Michael Mann.
Ferrari rappresenta il progetto di una vita per Michael Mann, giunto al suo dodicesimo lungometraggio in oltre quarant’anni di attività dopo un’assenza dagli schermi lunga otto anni, dovuta anche al doloroso flop al botteghino di Blackhat.
Tratto dal libro del 1991 Enzo Ferrari: The Man, The Cars, The Races, The Machine di Brock Yates, sceneggiato da Troy Kennedy Martin (entrambi scomparsi da diversi anni), il film non è un biopic classicamente inteso, ma la fotografia di uno degli anni più critici, difficili e travagliati di Enzo Ferrari.
Modena, 1957. L’ex pilota Enzo Ferrari, fondatore dell’omonima casa automobilistica, sta attraversando un momento di profonda crisi a livello personale e imprenditoriale. L’anno prima ha perso il figlio Dino, morto a soli 24 anni a causa della distrofia di Duchenne. Il rapporto con la moglie Laura, sempre più complicato e tempestoso, si aggrava ulteriormente quando la donna scopre che il marito ha avuto un figlio alla fine della Seconda guerra mondiale dall’amante, Lina Lardi. La sua azienda si trova in serie difficoltà economiche, talmente gravi da costringerlo suo malgrado a prendere in considerazione l’idea di chiedere aiuto a uno dei colossi del settore, la Ford o la Fiat di Agnelli. Per farlo però deve cercare di aumentare la produzione e la vendita di auto sportive e l’unico modo sembra essere quello di vincere la Mille Miglia, la celebre e leggendaria corsa che attraversa mezza Italia, da Brescia a Roma e ritorno.
Se Blackhat era stato frainteso e sottostimato dalla critica e poco amato dal pubblico, a Ferrari non sta andando molto meglio, accusato com’è da molti di essere un film piatto o, addirittura, di assomigliare a una fiction. Per chi scrive lo sguardo e la cifra stilistica di Michael Mann sono antitetici e incompatibili con le fiction televisive, come del resto lo era Luck, la bellissima e purtroppo fallimentare (in termini di ascolti) e incompresa serie della HBO di cui l’autore americano aveva diretto l’episodio pilota e in cui figurava tra i produttori esecutivi. Basterebbero alcuni, semplici e commoventi movimenti di macchina per comprendere come quello di Mann sia “l’ultimo cinema umanista possibile”, come ha sottolineato più volte l’amico e collega Denis Zordan. Ci riferiamo, ad esempio, all’arrivo nella tenuta di Castelvetro di Enzo Ferrari, dopo che ha raccontato alla moglie dell’amante e del figlio nato da quell’unione, con la camera che lo segue all’interno dell’abitazione per poi spostarsi verso le scale, avvicinandosi per un attimo al bambino che di nascosto segue il suo rientro e la conversazione che ne segue con la madre. In un’altra occasione l’obiettivo della camera si sofferma sull’amante di Enzo, Lina, interpretata da Shailene Woodley, sdraiata sul letto, e sembra quasi accarezzarle il volto, ripreso e inquadrato di lato. In Ferrari la macchina da presa rimane spesso incollata sui volti, indugia a lungo sulle espressioni sofferenti o furibonde di Laura, interpretata da un’intensa e bravissima Penélope Cruz.
Sono solo alcuni dei tanti momenti, insieme alle scene delle corse su pista o lungo le strade di città e campagna durante la Mille Miglia, capaci di togliere il fiato in un film magistrale su cui aleggia dall’inizio alla fine un costante e perenne senso di morte. Si pensi alle scene al cimitero, una posta quasi in apertura e l’altra in chiusura, con Ferrari che – dopo avergli consegnato l’autografo di un pilota deceduto in gara – prende per mano il figlioletto per portarlo a “conoscere” il fratello maggiore morto l’anno prima. Del resto il film più funereo e a lungo rimandato di Mann porta impresse le firme e i nomi di due morti: l’autore del libro da cui è tratto e dello sceneggiatore che lo ha adattato per il grande schermo che abbiamo menzionato in precedenza. Un’opera profondamente manniana, che racchiude buona parte del suo cinema precedente, a partire dall’interpretazione di Adam Driver. Nei suoi sguardi fermi e risoluti, nell’andatura rapida e nervosa, nella totale e maniacale dedizione al lavoro, ritroviamo le ossessioni e i tormenti di altri personaggi interpretati da grandi attori che hanno costellato l’universo manniano, dal doppio Pacino di Heat e Insider al Cruise di Collateral, passando per De Niro sempre in Heat fino ad arrivare a William Petersen di Manhunter e James Caan di Thief. Per chi lo segue da tempo, è arcinoto che Mann sul lavoro sia da sempre un perfezionista ostinato e scrupoloso come lo sono i personaggi che mette in scena e in cui in parte si rispecchia e identifica. L’Enzo Ferrari di Adam Driver, di una bravura impressionante, è un uomo sofferente nel privato, alle prese con un lutto ancora da elaborare, dallo sguardo insondabile e impenetrabile in pubblico, sempre con gli occhiali da sole per schermarsi e proteggersi dalla stampa e dalla folla.
Ferrari delude chi vuole e si aspetta un film biografico in senso letterale, disattende le aspettative di chi vorrebbe che fosse incentrato sulle corse e sui motori, sebbene contenga al suo interno scene su pista di un realismo e di una potenza rare e inusitate, fino al drammatico e scioccante incidente nei pressi di Guidizzolo in cui persero la vita undici persone. Ferrari è un film di lutti e sofferenze, di assenze e fantasmi, di passioni e ossessioni, il nuovo e prezioso tassello nella filmografia di uno degli autori americani più importanti e incisivi degli ultimi quarant’anni. Purtroppo o per fortuna, a seconda dei punti di vista, il cinema di Michael Mann, così denso, profondo, complesso e umanista probabilmente non è più in grado di intercettare i “gusti” e l’attenzione del grande pubblico, sempre più pigro e disattento, abituato alle visioni superficiali, distratte e mordi e fuggi da piattaforma.
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