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FLASHDANCE

FLASHDANCE

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La ricerca (ambigua) della felicità.

Un film come Flashdance è praticamente l’archetipo di una rubrica come questa. La rivincita del pubblico. Perché non solo Flashdance venne ampiamente stroncato quando uscì al cinema nel 1983, ma perché l’incredibile successo di pubblico che incontrò allora non viene meno con gli anni e i decenni, rinnovandosi si può dire ad ogni ennesimo passaggio televisivo. Fenomeno plausibile nell’epoca dei talent show se vogliamo, però resistere al trascinante provino finale di Alex con cui Flashdance si conclude in gloria, è ancora oggi impossibile. Critica? No, grazie.

Eppure. Una favola (anzi, una “favoletta”) in forma di videoclip. È l’argomentazione sommaria con cui di solito viene sancito lo scarso interesse critico di un film tanto fortunato, visto come un prodotto per le masse dalla morale ingenua e consolatoria. Ma per una Alex Owens che ce la fa e corona il proprio piccolo sogno dopo essere stata sul punto di abbandonarlo, quanti altri non riescono e rimangono prigionieri delle loro vite senza sbocchi? Flashdance è popolato di una galleria di personaggi che hanno tutti più di una personalità, più di una carriera, più di un mestiere: il loro – per lo più umile e blue collar: saldatrici, cuochi, cameriere – e quello che sperano di poter fare un giorno, una volta che le loro aspirazioni avranno trovato la strada giusta per compiersi. Ma come tanti altri prima di loro, rimangono imprigionati in una realtà che non dà loro scampo: è il caso dell’aspirante stand-up comedian che sogna Eddie Murphy e Steve Martin, ma dovrà adattarsi ad un’esistenza molto più grigia. Per non dire di Jeanie la quale, delusa dal mancato avveramento dei suoi desideri, finisce spogliarellista in un night (e non è affatto detto che ne esca, malgrado Alex la trascini via dal localaccio in cui si esibisce). Quelli che non ce la fanno, in Flashdance, non vengono alla fine salvati, e neppure ricordati, finiscono senza una parola. A suo modo, la logica di selezione dell’american way of life è all’opera anche qui. Non è un mondo perfetto.

A pensarci bene sopra, Flashdance somiglia soprattutto ad una specie di festa di Carnevale in cui tutti entrano ed escono senza sosta dalle loro maschere, provando a credere a se stessi in “parti” differenti da quelle in cui sono costretti: è così per Alex, che prima rifiuta la corte del suo capo per tenere separati i ruoli, ma poi si butta e avrà le sue disillusioni (naturalmente destinate a ricomporsi nella finzione filmica, come accade quando s’ingelosisce dopo aver scoperto l’innamorato con l’ex consorte). Per non dire di una delle sequenze più apertamente politiche del film, quella in cui la protagonista si reca a fare richiesta d’ammissione al corpo di ballo dei suoi sogni, e scappa perché non si sente all’altezza: la macchina da presa di Lyne che inquadra le calzature delle aspiranti danzatrici dice più di tutti i loro discorsi sull’esperienza e sulle scuole di danza frequentate, e svela il classismo di cui rimane permeata la mentalità di fondo. Ma una maschera prova ad indossarla lo stesso Nick, che viene dal quartiere, dalla strada, e si sente un po’ a disagio nei panni del ricco imprenditore con la Porsche, salvo servirsi della sua influenza presso la commissione esaminatrice per procurare alla sua ragazza l’agognata audizione. L’ambiguità, per trattarsi di una favola zuccherosa, non manca, e l’uso del videoclip, che permette a ciascuno di avere cinque minuti di sofisticata “alterità”, diventa sorprendentemente funzionale ad un microcosmo e a una società bisognosi non solo di speranza di realizzarsi, ma anche di andare in cerca di un pattern differente, ricomponendosi secondo combinazioni inusitate, per quanto siano basate su materiali preesistenti.

Flashdance è il racconto in forma di apologo dell’intima ricerca di idealità e felicità di una working class che, all’inizio degli anni 80, non sembra più disposta a credere appassionatamente nel Sogno americano ed è ansiosa di trovarne nuove declinazioni. Quasi l’altra faccia, nascosta e riservata, del profilo pubblico proposto da Reagan, che punta su prove di forza per lenire l’ancora enorme scoramento post Vietnam e il terrore della potenza sovietica. Forse un’atteggiamento del pari reazionario, che però Lyne cattura nel suo farsi, senza titillamenti ideologici e lasciandone in vista le ambivalenze. Non è poco.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.