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GIOVANI SI DIVENTA

GIOVANI SI DIVENTA

WHILE WE'RE YOUNG

40 anni e sentirli tutti.

L’epigrafe di circa un minuto proveniente da Il costruttore Solness di Henrik Ibsen che apre il film non faceva ben sperare, a dirla tutta, essendo segno evidente di una pedanteria che invece il film riesce per buona parte a evitare. Sì, perché Baumbach, che a parere di chi scrive aveva prodotto più bassi che alti dopo Il calamaro e la balena, opera della consacrazione, forse ritorna con nuova verve a parlare di ciò che conosce meglio: il rapporto tra genitori e figli, il successo e la paura del fallimento.
Quella paura che guarda in faccia tutti i giorni il quarantaquattrenne Josh (Ben Stiller, che di anni ne ha sei in più), documentarista underground un tempo di successo, sposato con Cornelia (Naomi Watts), il cui padre, nonostante sia anziano, quel successo lo conserva ancora, e che sembra svanire dopo l’incontro con Jamie (Adam Driver, insopportabilmente in parte) e Darby (Amanda Seyfried). La prima coppia viene messa in scena come ancora attaccata a una gioventù che mano a mano si perde e che lascia un’ingannevole parvenza di sé nello stare tutto il giorno con l’Iphone in mano o nell’utilizzare Netfilx per vedersi un film. Cose a cui, invece, neanche si avvicina la seconda coppia: giovani hipster ostentatamente legati ad un passato vintage e affascinante (il costruirsi i mobili da sé, i dischi in vinile e l’utilizzo della macchina da scrivere) ai quali, per dirla alla Catullo, mentre tutti gli altri sprecano il tempo parlando, interessa riempire ogni momento della vita “facendo cose e vedendo gente”.
Questa volta il regista rinuncia all’eccessivo attaccamento ai suoi personaggi, molto spesso prigionieri di idiosincrasie e di strambe frustrazioni che rendevano i suoi precedenti film, specie Il matrimonio di mia sorella (peggior film del regista, sempre per chi scrive) e Lo stravagante mondo di Greenberg, scomode gabbie alle quali era difficile sottrarsi. Si concentra maggiormente sulla trama – non è dato sapere se volutamente oppure no, troppo debitrice dell’Allen dei tardi anni ’80: sembra quasi un miscuglio tra Crimini e Misfatti e Hannah e le sue sorelle – con tanto di intrigo (Jamie è un impostore o solo un arrivista?), costruendo un film dall’andamento con tutta probabilità prevedibile, ma piuttosto lineare, tanto da renderlo godibile e da lasciar abbastanza spazio allo spettatore per poter riflettere.
Perché il discorso sulla giovinezza perduta è tutt’altro che banale, poiché lo spasmodico aggrapparsi ad essa nasconde la più terribile delle ansie, quella di non essere all’altezza, e sfocia nell’invidia verso chi ha più successo, specie se si tratta di qualcuno ancora in forze e con meno anni sulle spalle. Non tutto però fila: lasciando da parte il compiacimento del regista nell’utilizzare troppo spesso citazioni evidenti e nell’ostentare il suo intellettualismo di sinistra, il film mette troppa carne al fuoco volendo inserire a tutti i costi il tema dell’autenticità legata al cinema. Il documentario è realtà o fiction? Non lo sappiamo, ma in un mondo in cui i social sono il nostro Avatar, abituati come siamo a citare, a rubare da altri e a documentare ogni passo della nostra vita, questa prospettiva tutt’altro che disprezzabile, in nuce, avrebbe potuto essere resa in maniera migliore. Così come i personaggi: alla Watts, (sempre bella e che non ha paura di mostrare rughe evidenti) e a Stiller non si può certo imputare il fatto di non essere credibili, ma quest’ultimo forse per consegnare un andamento frizzante al film esagera nel calarsi nei panni della maschera goffa che si porta appresso ormai da tutta la carriera.
Nessuno può sapere come invecchierà, e dopo mille discorsi, è quasi impossibile sfuggire alla logica della vita e, perché no, della morte. Shakespeare lo aveva capito molto bene: ci sono solo due modi per diventare immortale, diventare più grandi della vita stessa o, come fanno più o meno tutti in maniera automatica, mettere al mondo dei figli. Ma siamo sicuri che anche questo sia impresa facile? Il simpatico finale sostiene il contrario.

voto_3

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.