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Gabriele Muccino sulle orme di Ettore Scola.

Sembra sempre più simile ad un ottovolante, la carriera di Gabriele Muccino. Lanciato a velocità folle da tre film che, uno dopo l’altro, lo hanno reso a tempo di record uno dei registi italiani più celebri e influenti (anche grazie ad un’innegabile maestria nell’uso della macchina da presa), ovvero Come Te Nessuno Mai, L’Ultimo Bacio e Ricordati Di Me, che lo hanno oltretutto reso uno dei più famosi registi “generazionali” del nuovo secolo, il cambio repentino di location, dal Belpaese ad Hollywood, ha inciso successivamente non poco sulla qualità dei suoi film. Egli stesso ammette, dicendo che difficilmente tornerà a girare oltreoceano, di essersi ritrovato schiacciato da un sistema produttivo più forte di lui: La Ricerca della Felicità, ma anche Sette Anime e Quello che so sull’amore, non solo hanno avuto sorti alterne, ma hanno mostrato chiaramente la perdita graduale dei tratti distintivi del regista romano. Sono sostanzialmente facili da rintracciare: spiccata predilezione per tematiche familiari, approfondimento psicologico accurato quanto urlato, isteria caratteriale di fondo che aggroviglia situazioni e personaggi in un ritmo frenetico che si rispecchia inevitabilmente sull’andamento emotivo del film.

Gli anni più belli sembra proprio confermare la cosa: viene dopo il fortunatissimo A casa tutti bene, pluripremiato ritratto di famiglia dall’interno e dall’inferno, centratissimo, dove quasi 20 trame venivano portate avanti in parallelo senza perdere mai né il filo né il ritmo di nessuna, e cerca in qualche modo, inconsapevolmente o meno, di seguirne il percorso, senza riuscirsi e anzi sbandando più e più volte.

Se nel film del 2018 eravamo all’ombra di Scola, con La Famiglia, qui siamo sempre in zona commedia all’italiana ma con C’eravamo tanto amati; se con il film precedente si seguivano più storie, oggi si nega centralità anche ad un solo personaggio. Il problema è che ne Gli anni più belli, almeno fino a tre quarti, si insiste troppo su uno schematismo che mai si traduce in vera partecipazione emotiva, e tutto, ogni sentimento, dal più urlato al più sottile, sembra non essere mai sincero né realmente partecipato. Sarà anche colpa di un cast di attori tutti bravi ma mai in forma, mai efficaci, sempre telefonati, in prima fila un Kim Rossi Stuart forse al suo ruolo peggiore, e una Micaela Ramazzotti destinata oramai ad impersonare sempre lo stesso ruolo di coatta romana: ma soprattutto, desta meraviglia un trucco posticcio con cui si fa davvero fatica ad entrare in empatia. Come nell’illustre film di Scola, anche qua la storia sembra dover travolgere i destini individuali: si seguono allora le vicende dei quattro protagonisti attraverso 40 anni di storia, e gioco forza gli attori si devono adeguare con parrucche e cosmetici. Ma basta guardare la parrucca con la quale il pur bravo Claudio Santamaria fa capolino sulla locandina ufficiale per accorgersi di come proprio questo make-up alla buona sia specchio e metafora del film: qualcosa che suona sempre finto, che incide sull’evidenza dei personaggi, nell’echeggiare sentimenti e situazioni già viste senza arrivare al cuore.

E se anche (e per fortuna) l’isteria tipica delle caratterizzazioni mucciniane fatta di inseguimenti mozzafiato, urla e folli incomprensioni sembra aver trovato una sua pacificazione con uno stile a tratti più conciliato, è però il nucleo emotivo del film che non funziona, vittima di un fraintendimento creativo: il sentiero che porta a C’eravamo tanto amati non è filiazione né omaggio ma quasi un calco; e le pur riuscite sequenze dell’ultimissima parte del film – anche se il finale si perde in mille rivoli – danno l’impressione che Gli anni più belli sia un capriccio d’autore, una voglia di rivalsa di un regista capace ma spesso sottovalutato dalla critica, con l’insistenza sulla valenza pubblico/privato che in nessuna sequenza si risolve con un’equazione perfetta. L’opera n.12 di Gabriele Muccino si intestardisce a voler fare attraversare ai suoi personaggi diverse epoche: ma la scansione temporale è data solo dal cambiare delle parrucche, e le ellissi narrative sbracano e non centrano quei mutamenti epocali che si vorrebbero specchiare nel destino individuale dei protagonisti.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.