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GLI SPIRITI DELL’ISOLA

GLI SPIRITI DELL’ISOLA

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Al di là dell’ansia da prestazione.

Viviamo in tempi di contrapposizioni: grandi e – ben più sovente – piccine. In alcuni casi, il cinema finisce col rifletterle o almeno col farsene interprete, rielaborando i dissidi in parabole, scommesse, passatempi e giochi al massacro. Scoperchiando idiosincrasie, ardori, schieramenti, code di paglia.

Così, per esempio, con una quindicina di pellicole alle spalle il molto sospetto M. Night Shyamalan in Bussano alla porta non esita (perfino in una perorazione personale prima della proiezione) a istigare il pubblico con profluvio di campi e controcampi a un duello faccia a faccia che vuole tenere lo spettatore tra le grinfie del dubbio, in una reboante e cinica rifrittura dello scontro tra istinto millenarista e razionalismo liberale: l’importante è buttarci dentro qualsiasi provocazione in parole e immagini (al contrario di quanto faceva Michael Haneke nei suoi Funny Games), dall’Apocalisse in giù, nel tripudio del what if.

Capita invece che l’ancor più sospettabile Martin McDonagh, che di lungometraggi all’attivo ne ha appena quattro (ma intervallati da tre lavori teatrali da lui scritti e inscenati) e ha navigato almeno fino a Tre manifesti a Ebbing, Missouri principalmente nel mare periglioso del pulp e del grottesco, ci inviti a starcene comodi, ai margini, per osservare parimenti lo spettacolo universale della nostra incapacità di stare insieme attraverso la storia di due uomini, due fra tanti, in un ambiente isolano così “fuori dal mondo” che tiene a bada l’eccesso di interpretazione (la guerra in fondo è al di là del mare, è lontana) proprio mentre inclina verso possibili e mai precisate similitudini.

Cosa è meglio? Dipende da quanto vi piace essere strattonati e da quanto siete predisposti alla sospensione dell’incredulità. Gli spiriti dell’isola, per cui molti hanno parlato di Beckett (forse perché irlandese), ma per il quale viene da pensare più all’estremismo idealistico del Michael Kohlhaas di Kleist, è proprio come il precedente lavoro di McDonagh: un film che si rivolge alla classicità e ai suoi generi per riformularne la lezione e distillarne a suo modo la polpa. Il pub del paese, come il saloon di un film di Ford, è il centro di gravità dei giorni dei due litiganti, Padraic e Colm, anche quando quest’ultimo decide di ripudiare l’amico di bevute di una vita, e di farlo anche a scapito della ragione (l’arte) per cui lo vuole allontanare da sé.

Non per caso nell’angusta profondità di campo del locale si compongono quadri che fanno sfilare via protagonisti, spalle, figuranti secondo un ordine che mantiene fluido il tono dell’opera. E che sa bilanciare le fughe prospettiche degli spazi aperti dell’isola, selezionati secondo le colorazioni del dramma sia sotto il profilo luministico e paesaggistico che nel senso scenico del termine: come i nostri sguardi seguono i personaggi e finanche le direttrici della loro evoluzione psicologica dall’alto in basso e dal basso verso l’alto lungo le stradine della campagna, campi lunghi e piani più ravvicinati si avvicendano con metodo a disporre l’ordito di una tragedia dei caratteri che solo per il ribaltamento delle attese e delle prospettive può essere davvero vissuta e goduta come commedia.

McDonagh dimostra di progredire di film in film pur non rinunciando ad alcuni vezzi e a qualche talvolta troppo calcolato effetto e lo lascia capire anche per come tratta e fa evolvere i suoi personaggi: se ancora nella sequenza del finale sulla spiaggia i contendenti stanno più fianco a fianco che uno di fronte all’altro, è perché nulla è chiaro, nulla è definitivo e la contrapposizione non è del tutto dimentica di quello che è stato. La stessa vecchia McCormick che profetizza le sventure ed è il “mostro” più somigliante alla banshee, la creatura mitologica di cui parla la canzone di Colm (e su cui è costruito il titolo originale The Banshee of Inisherin) è un residuo del mondo passato più che una cassandra implacabile; la presenza femminile costituita dalla sorella di Padraic è tanto fiera quanto evanescente e impotente, alla stregua di quella degli animali che assistono muti alle follie dei loro padroni. Certo, non mancano le macchiette, come il prete o il poliziotto (e anche qui ci sarebbe da pensare al rapporto con il classico), ma sono sfoghi momentanei, sfiati del dramma che rimangono quasi come degli a parte e non intaccano il quadro.

Non ci urla addosso, Gli spiriti dell’isola. Non ci indirizza paternalistico a una lettura nascosta, neppure nell’ambiguità. E non pretende nemmeno di farci per forza rispecchiare nei suoi personaggi. In questa sua sobrietà che evita però di ostentare, Gli spiriti dell’isola ci dona solo il piacere di trovare un bel film alieno dall’ansia da prestazione di tanto cinema dei nostri tempi.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.