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HE GOT GAME

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Il basket è come poesia in movimento.
1998. Mentre nelle sale cinematografiche americane esce He Got Game – il primo film di Spike Lee dedicato allo sport da lui più amato, la pallacanestro – Michael Jordan si appresta a vincere l’ultimo titolo NBA della sua carriera insieme ai Chicago Bulls, battendo in finale i sorprendenti Utah Jazz trascinati dagli immortali John Stockton e Karl Malone. Sono gli anni di campioni già affermati come Scottie Pippen, Hakeem Olajuwon, Charles Barkley, Patrick Ewing, Shaquille O’Neal, Gary Payton. Da un paio di stagioni, si affacciano sul parquet due ventenni, destinati a scrivere la Storia della pallacanestro nella decade successiva: il primo si chiama Kobe Bryant, indossa una maglia giallo-viola e si sente talmente forte che ha scelto di dichiararsi eleggibile per il Draft NBA senza passare per il college. Il secondo si chiama Ray Allen e, a differenza di Bryant, è stato per tre anni nella squadra universitaria dei Connecticut Huskies: ora, insieme a Sam Cassell e Glenn Robinson forma i Big Three, che hanno riportato i Milwaukee Bucks ai playoff dopo tre stagioni di sconfitte. Ray viene soprannominato Candy Man, l’uomo dei dolci, nickname dovuto all’eleganza del suo tiro da fuori, ma anche He Got Game perché è lui che interpreta il ruolo di Jesus Shuttleworth nel film di Spike.
Al di fuori degli appassionati di basket che la elessero immediatamente un cult, la pellicola non fu particolarmente osannata alla sua uscita. Per la maggior parte dei critici dell’epoca, non fa altro che proseguire il discorso dell’autore afroamericano sulla rivisitazione del mito americano dal punto di vista dei neri, con pregi e difetti delle opere precedenti: un’abile capacità narrativa è controbilanciata da una sovrabbondante dose di retorica accompagnata da uno stile enfatico e ridondante. A posteriori, He Got Game assume un ruolo fondamentale nella filmografia di Lee, svolgendo una funzione seminale: molti dei temi e delle suggestioni emotive saranno riprese e maggiormente sviluppate ne La venticinquesima ora, considerato quasi all’unanimità il suo capolavoro. Il protagonista Jake Shuttleworth ha una settimana di tempo per convincere il figlio Jesus a iscriversi all’università di Big State, su richiesta del direttore del carcere in cui è rinchiuso: dopodiché tornerà in cella e se sarà riuscito nell’impresa può darsi che gli venga ridotta la pena. Come Monty Brogan, Jake è un uomo dal destino segnato, che deve compiere delle azioni: nel primo caso, si tratta di dire addio agli amici, al padre e alla compagna; nel secondo, invece, di recuperare il rapporto con il figlio, con la consapevolezza che questo riavvicinamento non potrà durare.

Proprio insieme a La venticinquesima ora, He Got Game è anche il film più privato di Spike, nel quale il livello di commozione prevale sulla riflessione sociale, comunque presente. Può essere interessante comparare i dialoghi tra Jake e Jesus con quelli tra Monty e James Brogan: se questi sono caratterizzati da un senso di impotenza e di sconfitta e dall’illusoria creazione di una possibile alternativa al carcere, gli altri rivelano un’inaspettata e ruspante vitalità, proprio grazie alla passione cestistica che accomuna padre e figlio, tale da poter mettere in discussione il sentimento di odio che quest’ultimo prova nei confronti del primo per aver ucciso la madre. Due sono i passaggi chiave, quelli nei quali Jake si avvicina di più a sfiorare una reazione divertita e affettuosa da parte di Jesus: quando si accingono a giocare nel campetto sotto casa e Jesus nota che il padre, benché solo momentaneamente fuori dal carcere per un “programma rilascio per lavoro”, non ha perso tempo correndo a comprare il nuovo modello di scarpe Air Jordan; e, soprattutto, quando Jake racconta il vero motivo per cui lo ha chiamato Jesus, confessandogli che è da ricercare nel suo fanatismo per il “Black Jesus” Earl Monroe – ex giocatore di basket dei Baltimore Bullets e dei New York Knicks – piuttosto che nelle pagine della Bibbia.

Per chi scrive, Jake Shuttleworth è l’interpretazione più riuscita di Denzel Washington insieme allo sbirro di Training Day e al pilota di aerei alcolizzato di Flight, certamente una delle più anticonvenzionali e potenti. Pare che nell’uno contro uno finale contro Ray Allen, il regista abbia rimproverato più volte il cestista dei Bucks perché non riusciva a sconfiggere l’attore hollywoodiano senza soffrire. Il copione prevedeva che dovesse batterlo per undici canestri a zero mentre il bel talento sotto canestro di Denzel impose che la sfida dovesse concludersi undici a cinque. Ad ogni modo, si tratta forse della scena di basket più bella ed esaltante che si sia mai vista al cinema: sulle note epiche e sontuose di Aaron Copland, la camera di Spike volteggia in aria e riprende il corpo e i movimenti di chi ha scelto di farsi bastare la pallacanestro come unica ragione di vita. Il commiato tra Jake e Jesus Shuttleworth è quello di un padre e di un figlio che hanno appena recitato insieme i versi di una poesia in movimento.

voto_4

Emiliano Dal Toso
Appassionato di cinema e musica, grande lettore di sport, ha deciso di aprire un blog di cinema dal nome Il bello, il brutto e il cattivo una sera che spulciava quello dell’ex calciatore del Padova Alexi Lalas. La cosa è nata un po’ per gioco e un po’ per noia, ma poi ci ha preso gusto: scrive anche su La Voce D’Italia e Potato Pie Bad Business e ha scritto su Cinerunner, L’Occhio Meccanico e Indie-Rock. Dopo una laurea in giurisprudenza alla Statale di Milano, è il momento di un Master in Critica Giornalistica all’Accademia Silvio D’Amico di Roma. Sogna una notte da leoni in compagnia di Vince Vaughn e Seth Rogen ed è persuaso di essere fidanzato con Natalie Portman e Keira Knightley, anche se loro non lo sanno. Tifa Milan, Los Angeles Lakers e Fortitudo Bologna e rimane convinto che Fernando Torres sia stato il centravanti più forte degli anni Duemila.