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I FANTASMI D’ISMAEL

I FANTASMI D’ISMAEL

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Il teatro mobile di Desplechin.

Solo gli esegeti più attenti e assidui del cinema di questo autore transalpino sono in grado di cogliere tutte (?) le (tante!) ricorrenze che punteggiano i suoi film, in cui attori e personaggi ritornano, ma non sono mai i medesimi, spesso “mutando” – in un certo senso – all’interno delle singole opere stesse. Nulla di strano nel cinema francese, se è vero che Eric Rohmer faceva giostrare spesso interpreti e intrecci intorno agli stessi rovelli e François Truffaut lasciava crescere in tempo reale Antoine Doinel lungo ben cinque film sparsi nell’arco della sua ultraventennale filmografia (e questo sebbene Desplechin citi Nanni Moretti e i suoi alter ego, Michele Apicella in testa, come principale ispirazione del suo metodo).

Il procedimento di Desplechin, dunque, appare come un singolare abbinamento di iterazione e variatio, di combinazione e riconfigurazione sintattica delle stesse figure che non si esaurisce nel singolo film o nella proliferazione di rime, opposizioni e consonanze tra i suoi lavori, ma riverbera fino all’interno di molte sequenze. Prendiamo quella in cui Ismaël rinfaccia a Carlotta il suo abbandono: un regista qualsiasi (“autori”, checché significhi nel 2018 questa parola, compresi) l’avrebbe verosimilmente ripresa in piano sequenza o, per sfruttare al massimo l’effetto drammatico, mediante una serie di piani ravvicinati e concitati, magari con camera a mano e fotografia sgranata. Desplechin sceglie una terza via. Le riprese sono apparentemente tradizionali, ma dentro la scena “madre” si notano accentuazioni ed increspature ottenute con procedimento fotografico che la segmentano e la sfrangiano pur nella sostanziale continuità. L’effetto, che può apparire un orpello se non si considera l’insieme complessivo e il valore della sequenza nel corpo del film, è quello di spezzettare ulteriormente non tanto la narrazione quanto l’agire dei personaggi, che perdono ogni monologicità e legnosità: allontanandosi dunque dalle deformazioni marionettistiche o grottesche (come anche da letture banalmente psicologiste), tranne che nella finzione del film (è una sorta di mise en abyme, ma di questo certo non ci sorprendiamo) che Ismaël sta scrivendo/girando (da notare che qui scrivere e filmare sembrano processi contemporanei che si influenzano a vicenda).

Mi sembra positivo, comunque la si pensi, che il senso di saturazione che ad un certo punto può prendere lo spettatore di I Fantasmi d’Ismael sia quello che viene da un eccesso di immagini significanti e da una in fondo benigna overdose di informazioni, come in un denso saggio filosofico, non certo quello che scaturisce da una ricercata mescolanza dei generi che fa pensare in primis ad alcuni lavori di Wim Wenders (ma c’è davvero da sperare che il cineasta francese non si lasci in futuro troppo catturare da quella direzione; non sembra comunque che le sue tentazioni siano di tipo predicatorio, né metafilmiche in senso stretto). È chiaro come il sole che Desplechin sta giocando, eppure il suo è uno svago sempre serio, come quello di Mathieu Amalric quando traccia parallelismi e differenze tra due quadri rinascimentali, con idee magari astruse, ma che aprono squarci e piste ulteriori. Il drammatico triangolo tra Ismaël, Sylvia e Carlotta viene anch’esso regolarmente sabotato con alacrità: i fantasmi del regista lo abitano (a partire dal rapporto col suocero Bloom, sorta di padre putativo), ma non è dato concludere che il film sia l’ennesima rifrittura del genere (ché tale oramai è) sui registi in crisi: e se parlare di work in progress è rifugiarsi in una definizione che dice tutto e niente, la sensazione rimane quella che Desplechin stia cercando ancora qualcosa, che il suo caleidoscopio produca sì visioni convulse e distorte, ma l’intingolo della pietanza da lui preparata sia ancora saporito. Certo, è solo un’opzione di gusto. Ma se è ancora lecito provare ammirazione per un menu elaborato, nel XXI secolo in cui pare che tutti i puzzle siano stati tentati, quello del cineasta francese ha le sue belle possibilità di suscitarne.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.