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I FIGLI DEL FIUME GIALLO

I FIGLI DEL FIUME GIALLO

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Il racconto di una grande storia d’amore.

Con il cinema di Jia Zhang-ke si ha sempre la sensazione di partire per un viaggio nella Cina contemporanea, filtrato attraverso le vicende e le sensibilità che i suoi personaggi mettono in gioco. Corre continuità, c’è poco da fare, tra stati d’animo e paesaggi, entrambi così evidenti da rivaleggiare per essere il fulcro dell’attenzione. Quello di Jia, complice la meravigliosa prova (ancora una volta) di Zhao Tao, che con convinzione e ammirazione ritengo essere una delle più straordinarie interpreti del cinema mondiale, è sempre un inesausto percorso sentimentale. I luoghi già al centro di lavori precedenti come Still Life e Al di là delle montagne si stratificano sempre più e corrispondono alle esperienze degli uomini e delle donne al centro di queste storie, mai però in modo ostentatamente metaforico, neppure quando la protagonista Zhao Qiao riflette sulla sua sorte (si pensi alla scena del cinema o a quando incontra gli artisti di strada). Senza soluzione di continuità si vedono sullo schermo case popolari, ponti avveniristici, quartieri-alveare che sembrano inabitabili, centrali elettriche, dighe, scorci post-industriali, alberghi di periferia e locali di tendenza, autobus di linee secondarie e treni che sfrecciano nel mezzo delle pianure. Si passa rapidamente dai passatempi dei gangster al culmine della loro piccola e fallace parabola ai villaggi dei minatori e alle loro lotte sindacali senza speranza; da una cerimonia funebre improvvisata su passi di danza a drammatiche aggressioni e pestaggi in strada; da lunghi anni di carcere a indomite ricerche di giustizia e al tentativo di chiarire il presente alla luce del passato (la bellissima e dolorosa scena in cui Qiao e Bin sembrano lasciarsi per sempre potrebbe far parte, per come è assorta e quasi trasfigurata, del repertorio di un Wong Kar-wai: ma il registro resta più dimesso, mai caricato di orpelli anche grazie al lavoro del direttore della fotografia Éric Gautier); e si passa persino da impossibili fughe verso un altrove ancora da inventare (l’intermezzo con l’uomo degli UFO) a ritorni rabbiosi e tutto tranne che di fiamma. Ogni linea della storia, quasi ogni minimo frammento di essa, si concentra infine sul volto e sulla figura di Zhao Tao, che resta il punto focale della narrazione, ideale testimonianza e ricettacolo di tutti i cambiamenti vissuti dalla Cina negli ultimi due decenni (il film va dal 2001 al 2018). Jia dilata i tempi, mescola materiali eterogenei – scene girate all’inizio del secolo –, si serve dell’ellissi quando non è necessario spiegare né dire di più, reitera e cita (la canzone di Sally Yeh che era il refrain di The Killer di John Woo, una breve scena “anticipatoria” tratta da un altro film con Chow Yun-fat, Tragic Hero di Taylor Wong); padroneggia la parallissi decidendo di agire sulla consapevolezza e sulla conoscenza dello spettatore, tripartisce il racconto come in Al di là delle montagne ma non ha necessità di incorniciarlo didascalicamente, lascia trapelare attimi che provengono per assonanza dal suo cinema precedente, lavora sempre sulla durata delle sequenze volta a volta accelerando, rallentando, unendo o disunendo, cucendo il sentimento del passato con l’anelito del presente e persino rendendo più evidente il piano temporale che è più lontano e per logica dovrebbe essere meno visibile e sotto la superficie (esempio di come questo regista abbia familiarità anche con l’hysteron proteron).

Con I figli del fiume giallo, Jia Zhang-ke ha aggiunto un altro gioiello alla sua bellissima filmografia, confermandosi uno degli autori più importanti e profondi del cinema contemporaneo. Un film che è anche e soprattutto il racconto di una grande storia d’amore la quale, al pari di molte grandi storie d’amore, è la pratica di un’ostinazione, di un ritorno sugli stessi motivi, sulle stesse persone, sugli stessi passi: come anche, forse, sugli stessi errori e sugli stessi vicoli ciechi. Sulle stesse delusioni. Come quelle che danno gli uomini della vicenda, mai all’altezza dei sentimenti e della forza delle donne (a parte Bin, anche l’ufologo ammette di aver mentito, il seduttore della sorella di Qiao a fronte del suo aborto se la cava col denaro, il tassista si rivela meschino e ridicolo). Ma forse questo è anche un effetto prospettico. Il personaggio interpretato da Zhao Tao è uno tra i più sfaccettati e impressionanti del cinema degli ultimi anni. In 136’ di film sul suo volto compare una gamma impressionante di sfumature: donna innamorata, risentita, giocosa, compassionevole, pratica, amichevole con i vicini, presaga, determinata, capricciosa, atterrita, coraggiosa, omertosa, umiliata, consapevole, disperata, capace di fermezza, spaventata, amorevole, abbandonata. Una figura di donna che giganteggia e che lascia lo spettatore, forse suo malgrado e nonostante il finale sospeso (ma amaro) del film, con un enorme senso di speranza.

voto_5

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.