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Il Mexican standoff del fallimento morale.

È facile scambiare I giganti, la nuova opera di un cineasta – Bonifacio Angius – eccentrico e ancora poco visto al di fuori dei festival (due volte in concorso a Locarno e una anche a Torino), per quello che non è. Un Kammerspiel western come vuole il regista, un jeu de massacre, una pièce teatrale prossima al gusto del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e di Harold Pinter. Questi tentativi di inserire il film in un casellario di genere, pur se inevitabili quando si ha a che fare con quello che nel nostro panorama produttivo sembra pressoché un UFO, finiscono tutti per ridurre o non dare conto della sua originalità.

I giganti poteva essere una commedia, di quelle che vivono tra tinello e cucina tanto care e praticate nel cinema italiano. Ne avrebbe i presupposti, a partire dalla presenza tra i protagonisti di Michele e Stefano Manca del duo Pino & gli Anticorpi. Ma ha troppo dolore per limitarsi a essere (solo) quello. Un ritrovo di cinque amici maschi con molti problemi, specie nei confronti delle donne. Una festa triste a base di droghe, risentimento e rimpianti, come dei reduci di tempi migliori, della giovinezza o di speranze andate a male. Angius, che per il suo promettente esordio Perfidia (2014) dichiarava di essersi ispirato a Taxi Driver e oltre a Scorsese sostiene di avere come numi tutelari Federico Fellini, John Cassavetes e Sam Peckinpah, ha evidentemente un cocktail impressionante di influenze, ma non le fa pesare. Se è postmoderno, non ha nessuna importanza ai fini del racconto. C’è una pistola: che prima o poi deve sparare e uccidere naturalmente (un altro riferimento è Hitchcock, chiaro anche questo). E ci sono la droga, l’alcool e i dialoghi sconclusionati e paradossali, oltre a una situazione di stallo esistenziale e nichilista, come se fossimo in un film di Tarantino. Se lo guardiamo da vicino, I giganti è uno straordinario Mexican standoff del fallimento morale.

Non c’è bisogno di tanto rumore e di assurdo furore, anche se gli ultimi 20 minuti del film riescono a provvederci pure di questo. In un’opera così lucida da apparire quasi costernata, stratificata e “spappolata” nonostante riesca ad essere sorprendentemente lineare e coesa, fanno capolino ad ogni istante temi e ansie contemporanee che invano si cercherebbero con simile acutezza altrove. In un grido di orrore per la propria inettitudine che non sa come trasformarsi nel suo contrario, una risata che li seppellisca una volta per tutte, questi maschi non più alfa (eccellenti tutti gli interpreti) e che sono tutto fuorché giganti fanno sì mille giri, ma ritrovano sempre e solo le lacrime di autocommiserazione per le loro povere vite andate in fumo: che si tratti di flashback con la famiglia andata via o di allucinazioni (?) con cortei funebri, di prediche imbambolate e temibili da parte del più giovane e sprezzante del gruppetto di balordi o di vaniloqui da erotomani ormai usciti di testa, il circolo vizioso è tutto nella loro mente.

Meritano qualche moto di pietà, questi individui? Se ve n’è una traccia, è solo nel personaggio del padrone di casa, Stefano (Deffenu, che porta alle estreme conseguenze il personaggio di Perfidia), indefinito e saturnino, voce fuori campo che apre e chiude I giganti, l’unico in fondo che lascia la scena degnamente, nella sua inafferrabile follia gentile. È magra come consolazione, ma serve a scacciare il pericolo della tesi precostituita, della presa di posizione moralista. E accende un momento di poesia, e ci fa raccogliere per un istante, prima di sprofondarci nuovamente in un nero che più nero non si può.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.