Il ritratto di una donna alla deriva.
Un Frecciarossa che termina la sua corsa nella Stazione Centrale di Milano. Un altro che lascia la stessa stazione, nella luce malcerta di un giorno di mezza stagione. Sono le due sequenze che aprono e chiudono un film circolare, verace come un incubo lungo una vita (quella di Maria Serra – in realtà Antonia -, morta a 40 anni, figlia di un giovane poliziotto ucciso durante una manifestazione milanese di estrema sinistra del terribile 1977): e rarefatto come il sogno della protagonista di compiere la vendetta contro l’uomo che le ha ucciso il padre e lasciato il marchio della disgrazia addosso.
L’intensa e versatile Teresa Saponangelo si sforza di rendere vivida la fantasia di rivincita di Maria, che cambia look tingendosi i capelli e atteggiandosi da giustiziera con la pistola: ma che rimane conscia in ogni momento della sua frustrazione, come dimostra la teatrale perorazione allo spettatore, sguardo in macchina, dopo pochi istanti dai titoli di testa. Il nuovo film di Antonio Capuano, tornato ad un soggetto drammatico dopo la parentesi di Achille Tarallo (2018) con Biagio Izzo e Tony Tammaro, è il classico pedinamento di una donna che una vita la vorrebbe, ma non riesce ad essere “centrata” ed equilibrata: la madre è rimasta abulica e assente dopo la tragedia, il padre non c’è mai potuto essere e le ha lasciato un “buco in testa”, una versione metaforica di quello che la pallottola di un 18enne di Autonomia gli ha fatto, lasciandolo esanime, un brutto giorno degli anni di piombo. Maria Serra si divide tra il lavoro in una scuola per cui non viene nemmeno pagata, vaghe speranze e recriminazioni, uomini che la desiderano (qui il possibile affetto per un giovane poliziotto, lì una marchetta), slanci e ricadute, brame, disperazioni. Tutto il film descrive Maria che girovaga, si dibatte, si dissipa e lascia fluire ai quattro venti la sua angoscia: funzionale e azzeccata si rivela in questo senso la scelta delle location a Torre del Greco, luogo di confine situato lungo il margine inferiore della grande area metropolitana di Napoli che, stretto tra il mare e il Vesuvio, si dimostra ideale luogo di costrizione e allo stesso tempo di dispersione. È la parte più interessante del film, che procede in montaggio alternato con quella dell’incontro tra Maria e Guido, l’omicida del padre, che è viceversa la meno vivace malgrado la misurata interpretazione di Tommaso Ragno: uno sconfitto che – proprio come Maria – non sa vivere nella realtà che lo circonda (ma il didascalico dialogo con il figlio suona appiccicato).
Capuano, cineasta certo non prolifico, ha voluto fortemente il film dopo aver sentito la storia alla radio e aver conosciuto personalmente la vera Maria/Antonia. Non ritrova la misura e l’ispirazione di quello che rimane forse il suo miglior film, La guerra di Mario, a tratti sbanda, ma è lucido quanto basta per un bel ritratto di donna alla deriva senza scadere nel film di denuncia più ovvio. C’è da sperare solo, fine della pandemia permettendo, che il film possa trovare una visibilità maggiore di quella riservata ai suoi ultimi lavori.
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