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La difficoltà di raccontare. E di guardare.

La Chiesa ragiona in termini di secoli, non di mesi o di anni. La battuta, che riporto in modo impreciso e a memoria, è di uno dei personaggi del film e serve a marcare la differenza: la stampa, realtà di enorme tradizione e di centrale importanza nel sistema americano, si muove su un piano paradossalmente molto più complesso rispetto all’istituzione religiosa, essendo costretta a fare i conti (letteralmente, visto che la prima mezz’ora del film mette il dito nella piaga di un’indipendenza che rischia d’essere minacciata dalle mutate condizioni economiche), per riuscire a sopravvivere, con la velocità, col tempismo, con il mutamento dei gusti e dell’attenzione del pubblico e con l’innovazione tecnologica, internet in primis.

Se c’è un merito (non uno solo, beninteso) in Il Caso Spotlight, non mi pare che risieda tanto nel riesumare un certo genere di film che fa dell’inchiesta giornalistica e dell’eccezionale zelo e integrità professionale dei reporter la trave portante della corretta informazione, quanto nel mostrare come una verità molto scomoda, ma in fondo palese, intuibile, perfino già dichiarata (il Boston Globe stesso aveva di fatto insabbiato lo scandalo della pedofilia ecclesiastica anni prima che il team Spotlight lo riprendesse), possa invece rimanere incubata per molto tempo, forse persino per sempre, malgrado sia pubblica, di fronte agli occhi e sottoposta al libero discernimento di tutti coloro che vogliano effettivamente guardare.

Inevitabilmente, a calamitare l’interesse dei media che si occupano di questo film, è lo scandalo della pedofilia ecclesiastica e di come le autorità religiose l’abbiano coperta per anni e anni. Ma sulla distanza, a convincere di più ne Il Caso Spotlight è scoprire quanto sia grande la difficoltà di raccontare i drammi dei violentati. Si veda il bel finale, vittorioso ma sommesso, con le voci di chi è (stato) toccato che si sovrappongono infine a quelle dei giornalisti per dare nuove tinte alla disperazione e, forse, al sollievo. Chi vede nel film di Tom McCarthy un tributo alla centralità del sistema informativo e all’importanza di difenderne l’autonomia, coglie solo un tratto dell’opera, a mio parere non il più importante. È fin troppo facile elogiare le interpretazioni, i pezzi di bravura di attori che hanno tecnica e mestiere, nonché presenza scenica e misura (per la quale soprattutto si vedano i magnifici Liev Schreiber e John Slattery, il quale si sforza di liberarsi dell’ombra dell’impagabile Roger Sterling di Mad Men). Ma è il coro di voci a contare di più, ed è merito non da poco del regista e sceneggiatore averlo compreso.

Il Caso Spotlight può non soddisfare chi cerca facile indignazione perché non veste i panni del film-rivincita, perché non rimesta nel torbido alla ricerca di effetto. Veste panni civili e, si licet, borghesi, rendendosi conto di dover sgomitare per meritarsi un’udienza (e un’audience, di fronte alla tragedia dell’11 settembre 2001). Non sarà il miglior cinema americano possibile, non sarà sperimentale, non griderà cose altisonanti, ma si merita lo stesso una vigorosa stretta di mano.

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Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.