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El club foto 3

Tra luce e tenebre.

Se Pablo Larraín è un grande regista, è prima di tutto perché non dà l’impressione di preoccuparsi più di tanto delle tesi che i suoi film esplicitano. Che si tratti di raccontare la follia omicida circolante nelle vene di un popolo represso (Tony Manero), di rivelare l’immaturità di una società sul punto di perdere il feroce padre-padrone Pinochet come punto di riferimento (No – I giorni dell’arcobaleno) o di mettere in scena, come in quest’ultimo film, il gioco al massacro di una piccola comunità di preti criminali e reietti, il cineasta cileno ha la fermezza che ci vuole.

Il cinema, naturalmente: il quale per Larraín non ha limiti e non può averne o porsene se vuole raggiungere l’efficacia. L’ellissi è solo uno strumento, da usare di quando in quando a scopi espressivi o per rendere manifesto che non occorre continuare (si pensi al finale in autobus di Tony Manero): in questo film Larraín la impiega quando filma l’uccisione degli animali, dei cani, che sarebbe stato eccessivo mostrare, ma non esita viceversa a documentare un suicidio, peraltro improvviso, non prefigurabile, e che rappresenta uno snodo essenziale della storia. Non ha nessuna paura, ma neppure ci mette enfasi melodrammatica o si preoccupa di mandare un avviso allo spettatore, a quel punto già scombussolato dall’apparizione improvvisa di un disturbante personaggio che sgangheratamente vomita accuse all’indirizzo del nuovo arrivato e, implicitamente, di tutti gli altri occupanti della casa. Ammesso che si possa parlare di una morale della visione (e di certo si può), ha poco da spartire con qualcosa di sistematico e decifrabile, con un canone insomma.

Lo si osserva anche in seguito, quando arriva l’inquisitore. Campi e controcampi, primi piani spesso netti, concisi e rigorosi, che si confanno alla situazione e alle rivelazioni con cui arriviamo a conoscere di più del bieco passato dei protagonisti. Neppure qui il regista si bea del suo stile, il formalismo non trova spazio in alcun modo ne Il Club. Può essere che a disturbare maggiormente sia proprio questo: un film che racconta gli orrori di uomini mediocri e a volte cattivi e malati in una cornice spogliata sia di sensazionalismo che di nobilitazione d’autore, anzi al contrario insistitamente quotidiana, domestica, crepuscolare. E se il simbolico, tra confessioni, ritualità e brandelli di liturgia, sembra farsi largo nell’ordito del film, è solo perché Larraín lambisce l’idea della sacra rappresentazione (di un inferno), ma non si spinge mai fino a far avvicinare pericolosamente la sua opera ad essa, lasciandone affidata l’evocazione soprattutto alle musiche di Carlos Cabezas, non a caso extradiegetiche. Ci sono voci che gridano sconnesse in un deserto di valori? suore che sono per metà carceriere e per metà prostitute come Maddalena? prepuzi e membri virili che compaiono nella stessa frase in cui si parla di ostie consacrate? Sembra che non abbiano eco, che non siano delineate con mano autoriale. Più che di volontà di scandalizzare o di sgradevolezza programmatica, si tratta dell’inevitabile decadimento delle cose e dei concetti, anche dei più sacri, nelle menti rabbuiate di questi uomini e donne perduti. Suonano addirittura naturali, se vogliamo.

Il Club può essere letto come un nuovo capitolo della dissezione “chirurgica” della storia segreta del Cile negli ultimi cinquanta anni. Fortunatamente non si tratta solo di questo, è molto di più. Dio potrà anche essere capace di separare la luce e le tenebre, ma gli uomini probabilmente no.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.