Pig Vs. Mandibules.
Gli audiovisivi sanno spesso intercettare il modo in cui le persone interagiscono con le nuove ideologie meglio di qualunque altro media. E’ interessante notare, sui database che raggruppano i pareri del pubblico più o meno cinefilo, che anche in filmetti come Andrei Rublev e Apocalypse Now, la morte reale di un animale può sancire una stroncatura irrevocabile. E a farne le spese, di recente, è anche Thomas Edison, per aver filmato la morte di un elefante nel 1903. Lasciamo ai sociologi l’analisi dei dati, ma quest’affezione per gli animali è stata anch’essa assorbita dal cinema. Nell’ambito del revenge movie, che si tratti di un film di nicchia (The Rover) o di uno rivolto a un pubblico molto ampio (il primo John Wick), il movente non è più il rapimento di una persona cara al protagonista, ma scaturisce in follia dalla perdita del proprio animale personale (in entrambi i casi, un cane). Si evitano le vecchie accuse di fascismo e si passa per progressisti, nonostante le centinaia di morti ammazzati: probabilmente una stortura del nuovo modello di pensiero post-liberal. Ultimo prodotto di quest’ideologia, è uno degli esordi più strambi (per non dire di peggio) degli ultimi anni, il film diretto da Michael Sarnoski (che, non a caso, fa rima sia con Andrei Tarkovskij che con Jim Wyrnosky). Pig vorrebbe avere il suo epicentro nello stravolgimento del patto spettatoriale: Nicolas Cage sembra volersi vendicare, ma il regista pensa ad altro. Si ha la sensazione di assistere a un deepfake, uno dei tanti video di montaggio col proposito dello shitposting che circolano su Youtube, in cui sembra che un burlone abbia sostituito un nome proprio di persona con la parola “pig”. Il problema è che non si capisce bene il senso dell’intera operazione, a partire dai capitoli intitolati come ricette, e la stramberia dell’assunto viene accettata solo perché causa di novità, soprattutto perché proviene dagli Stati Uniti: se fosse stato un film italiano con Argentero al posto di Cage avremmo pontificato sullo squallore del nostro cinema “di genere”; fosse stato un B movie giapponese se ne sarebbero occupati qualche nippofilo e pochi altri. Invece, c’è chi ha trovato commovente il rassegnato Cage del finale, egli che per tutta la durata del film rappresenta la real thing in un mondo dominato da copie e simulacri di qualcos’altro (la scena al ristorante è sintomatica) come in un western crepuscolare. Peccato che Pig non è la real thing che si propone di essere, nella livellatrice patina indie che vorrebbe miracolosamente affratellare i fan di First Cow (si vedano le scelte cromatiche, il passo delle sequenze naturalistiche) con quelli che si aspettano il reboot di Ghost Rider. O forse, più che qualcosa sugli USA contemporanei, ci dice qualcosa di chi questo cinema lo guarda, ostenta Kelly Reichardt ma muore dalla voglia di elogiare l’ultimo blockbuster. Per elevarlo a cult incondizionato, manca solo un analisi di Zizek sulla simbologia del maiale secondo Lacan, e poi potete godervelo come film d’essai a pieno diritto.
Mandibules cerca anch’esso di rompere il patto spettatoriale contrattando un’estetica da film festivaliero con un assunto della trama di rara deficienza, così disorientando il povero spettatore in cerca di appigli. Dupieux ispira enorme simpatia per come riesce a spaesare anche il critico più up-to-date, che per dare coerenza al proprio ragionamento critico, lo apostrofa come grande moralista o lo distrugge sventolando Baudrillard e soci. Se riusciamo a capire la tradizione che Pig cerca di sovvertire, tracciare una genealogia di questo cinema francese è difficile. Ciò che affascinava nelle prime opere di Bertrand Blier non era tanto la critica alla società (molto labile), quanto la coerenza nel tasso di deficienza presente in questo cinema: non vi sono alibi intellettuali, ma semplicemente l’abilità del saper raccontare che crea uno scarto con l’assunto infantile di base, che in passato ha fatto la gloria anche di parecchio cinema statunitense (guardare un qualsiasi WC Fields come controprova). Dupieux ha la fortuna di utilizzare un linguaggio cinematografico cool così da attrarre i cinefili giovani: riesce a creare una simbologia cult alla pari di registi più “seri” (tutto il significante di decadenza sociale e urbana che porta con sé la bici a forma di pony), dialoghi che attingono all’ambiguità del senso e pronti a diventare proverbiali (la discussione sul significato del toro è un buon appiglio per chi vuole della critica sociale), e vanta un uso memorabile del corpo attoriale (uno dei due protagonisti è un noto rapper francese, e Adèle Exarchopoulos recita nel ruolo di una vita). E forse proprio Adèle, e non la mosca, è la metafora del film: vista come portatrice di un deficit, incapace di comunicare e snobbata nella sua denuncia contro i mali del mondo. Dupieux, piuttosto che denunciare il vuoto, lo rappresenta in maniera seducente e ci spinge a riderci su contro la nostra stessa volontà. Si è liberi di non stare al gioco, ma in un mondo impazzito e spappolato di più non si può pretendere.
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