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Un’opera senza sconti sull’orrore della pena di morte.

Basterebbe la sequenza conclusiva del primo dei quattro episodi incentrati sul tema della pena di morte che compongono questo lavoro dell’iraniano Mohammad Rasoulof, Orso d’oro a Berlino 2020, per capire tutto. Un anonimo individuo di mezza età dall’apparenza mite e mansueta, paziente e bonario coi vicini, capace di sopportare lungo tutta la giornata le lagnanze della moglie rompiscatole e di assecondare con il sorriso i piccoli capricci della figlioletta e poi trascorrere una serata in pizzeria con i suoi famigliari: un uomo siffatto al calare delle tenebre se ne va a lavorare, ad eseguire pene capitali per conto del potere, e le esegue senza fare una piega, meccanicamente, come un impiegato qualsiasi che timbra il cartellino o fa una fotocopia. Davvero agghiacciante.

Cosa possiamo capire, allora? Per prima cosa, come mai il regista sia in disgrazia in patria quanto e forse più di Jafar Panahi, un altro che non fa sconti al suo paese e rispetto al quale sembra anche molto meno propenso all’allusione, l’arma tattica di lungo corso del cinema iraniano (1).

Parlandoci chiaro: Il male non esiste è un film che non le manda a dire, che le canta chiare e che non si rifugia nel non detto e nell’inespresso, tantomeno nelle metafore care invece al discutibile Reflection di Valentyn Vasyanovych (non è un confronto, voglio solo far notare la differenza di approccio). È un film in fondo piuttosto grezzo nel suo meccanismo che è persino spettacolare e a volte di facile (ma direi salutare) shock, fatto sul binomio stimolo-risposta: si pensi al secondo episodio, con un soldatino che fugge in modo rocambolesco per non dover dare la morte ad un altro essere umano e che si conclude con un Bella Ciao cantato da Milva che non c’entra granché, ma fa il suo bell’effetto. E che a volte ristagna nelle sue anse da thriller psicologico, specie negli ultimi due episodi, senza la problematicità percepita di Un eroe di Asghar Farhadi.

Eppure è anche un film che costituisce un solido memento e che crede fortemente nella realtà che mostra. Che ha una sua urgenza camuffata appena dall’apparente placidità (dura due ore e mezza pur se spezzettato nei suoi quattro segmenti): ma questo serve per ricordare come l’orrore si annidi proprio nell’ipocrita ordinarietà dei giorni che scorrono uguali. E in questo senso, forse, a convincere meno di tutti nella sua costruzione è proprio l’ultimo dei quattro racconti, quello in cui una giovane scopre la vera identità dello zio e il segreto che questi nasconde. Ma alla fine anche questa storia non fa che rincarare la dose: si può andare avanti per molti anni, per una vita persino, distogliendo lo sguardo e mettendosi una maschera di rispettabilità. Sarà pure tutto esplicito ne Il male non esiste. Il film non avrà particolari raffinatezze o arguzie formali. Ma per quanto mi riguarda non me la sento proprio di stare a fargli tanto le pulci, con quel che ci ricorda. Anzi, che ci sbatte sotto il grugno.

(1) Ammetto senza problemi che non ho visto nessun altro film di Rasoulof, anche se in casa ho il DVD di L’isola di ferro (2005), mai guardato. Ma mi è sufficiente quest’opera per affermare che è un’altra, l’ennesima, filmografia a cui mettere mano senza troppe perdite di tempo.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.