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Un’opera profondamente personale di un’autrice ritrovata.

Il potere del cane è tratto dall’omonimo romanzo dell’elusivo Thomas Savage, pubblicato nel 1967 e appartenente a un filone western che andava oltre i classici per eliminare la retorica epicizzante. Fondamentale in questa tendenza fu Walter Van Tilburg Clark, dai cui romanzi sono stati tratti Alba Fatale (1943) e La belva (1954), diretti da William A. Wellman ed entrambi capisaldi nella rilettura del genere. Viceversa il quinto romanzo di Savage ebbe una sorte meno fortunata: opzionato cinque volte per un adattamento cinematografico mai andato in porto, all’epoca non vendette più di mille copie. La critica americana invece lo esaltò, ma se da un lato tracciava parallelismi con gli studi sulla nevrosi di Kraft-Ebbing, dall’altro in quasi nessuna recensione si avevano accenni al tema dell’omosessualità repressa. L’adattamento della Campion esce in un periodo che risulta propizio per questo genere di operazioni. Sempre più film rileggono il West aggiungendovi elementi di novità: cercando tra gli esordi, andiamo dallo splatter cannibale dell’ottimo Bone Tomahawk fino a un onesto prodotto di genere come Old Henry (anch’esso a Venezia 2021) che sembra un Budd Boetticher, ma i personaggi sono tutti negativi o compiono scelte sbagliate. Il tema dell’omosessualità nel West non costituisce più una novità dai tempi dell’italiano Se sei vivo, spara! (uscito nello stesso anno del romanzo di Savage), e l’intelligenza della Campion sta nel non farne il perno sensazionalistico su cui reggere l’intera narrazione.

A chi potrebbe essere destinato un film come questo? Un’opera profondamente personale, dall’equilibrio miracoloso, che non scade nel delirio di un’autrice assente dai cinema da ben 11 anni, che vince il Leone d’Argento per la regia, che svia tutte le aspettative. Già il titolo, Il potere del cane, è criptico: potrebbe riferirsi tanto alle ombre di una montagna quanto a una citazione biblica che farebbe pensare a Phil (Benedict Cumberbatch) in una chiave cristologica al negativo. Le riprese si sono svolte interamente tra i paesaggi della Nuova Zelanda nonostante la didascalia iniziale ci informi che siamo nel Montana del 1929, spostando lo sguardo più sulla visione personale della regista che sul riutilizzo degli scenari naturali a cui il cinema americano ci ha abituato fin dalla Grande rapina al treno. Tanto che il West è utilizzato unicamente come luogo simbolico, evitando qualsiasi convenzione legata al genere: non ci sono sparatorie, scazzottate, duelli, discorsi sulla legge, e anche i balli tipici di Ford sono tenuti in secondo piano pur se la sequenza iniziale richiama a più riprese Il fiume rosso: ma è probabilmente una coincidenza. La risposta alla domanda che facevo a inizio paragrafo viene complicata ulteriormente se si pensa poi allo stile narrativo adoperato dalla Campion: pieno di ellissi (dando quasi l’impressione che abbia girato il doppio e poi buttato tutto il superfluo), si sofferma su una narrazione cronologicamente lineare ma fatta esclusivamente di rime interne, ovvero con gesti e oggetti che ritornano nelle immagini ma invertiti di polarità.

Il potere del cane è ambientato quando il West è ormai solo un fantasma, la grande epopea è giunta al tramonto e ci si trova a un crocevia di profondi cambiamenti storici suggeriti dai personaggi: la vedova Rose (Kirsten Dunst, in un ruolo degno di Joan Fontaine) ripete più volte che non lavora più come pianista al cinematografo (da cinefili, sappiamo che il 1929 segna la fine del cinema muto), e di lì a poco George (Jesse Plemons) dovrà affrontare la Grande depressione economica. In questo momento storico, la Campion trova lo sfondo perfetto per delineare un microcosmo dominato, tema principale del film, dall’assenza dei padri, lasciando continuamente al fuoricampo il personaggio di George e rendendo sempre più vulnerabile il carisma di Phil che declama (più che parlare) ed agisce quasi in trance. L’altro filo che lega tra loro i capitoli è sicuramente quello della nevrosi data dalla repressione sessuale che trova sfogo nei modi più strambi: Phil trova pace solo nuotando sporco di fango, Rose ubriacandosi e Peter tra violenze sugli animali, fiori di carta e hula-hoop; imparentando autorialmente questo bestiario weird con una narrazione “a salti” compiaciuta di dire poco sui personaggi a quello del lontano esordio Sweetie (per chi scrive, il miglior film della Campion). E le musiche atonali di Jonny Greenwood, più vicine a Penderecki che al folk americano, creano sinestesie strabilianti soprattutto su grande schermo.

Il ritmo placido delle due ore del film ripaga lo spettatore che cerca narrazioni poco convenzionali, e sarà curioso capire come sarà accolto dai viewers italiani. Ripaga anche perché ad ogni visione si scoprono collegamenti inediti e nuove ipotesi narrative (l’omosessualità suggerita dalle iniziali HB su un foulard, l’uso delle corde, ecc). Quando il cinema riesce a fare questo, dandoci la facoltà di immaginare cosa sia successo tra le sequenze per evitare l’ovvio e il già raccontato centinaia di volte, non si può che essere entusiasti: nel caso de Il Potere del Cane lo siamo soprattutto per la ritrovata giovinezza, attraverso la maturità, di un’autrice dal percorso discontinuo.

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.