La conferma di un autore.
L’eterno assente dalle recensioni cinematografiche è spesso, assurdamente, il pubblico, a dimostrazione di come ormai la critica (più che il cinema), non dialoghi con quest’ultimo. Si prenda un regista come De Angelis: Indivisibili fu trattato con un certo imbarazzo, eppure le recensioni scritte dagli utenti sui vari siti di cinema sono positive; mentre Il vizio della speranza che vince alla Festa del cinema di Roma il Premio del pubblico, su una rivista come FilmTv ha la media di 5 su 10. La ragione di questo rapporto basato sull’incomprensione si estende tristemente a una visione di tutto il cinema italiano: se un tempo il cinema degli autori medi (Germi, Lattuada) traduceva le stesse forme e contenuti degli Autori importanti (Ferreri, Visconti) per un pubblico generalmente avvezzo ai film da sala di periferia, oggi questa funzione è assolta da uno come De Angelis, che esprime le stesse cose del cinema di Garrone e Sorrentino (con cui condivide, in quest’ultimo film, lo sceneggiatore Contarello) a un pubblico più avvezzo alle serie tv (spesso prende anche attori di Gomorra) che ai film vincitori di premi ai festival europei.
Il suo metodo di lavoro, poi, è strettamente personale e pochi se ne sono accorti: se il modo in cui viene utilizzato Castel Volturno ha echi danteschi o biblici, è perché De Angelis pensa i film a partire dai luoghi (si pensi al Centro Direzionale di Napoli in Perez.) per porre nelle immagini una cifra personale. Si noti come egli possieda una gestione dello spazio di rara efficacia, che crea una sorta di geografia complessa, fatta di labirinti in cui lo spettatore riesce a muoversi mentalmente senza problemi di continuità. Non è da tutti. Poi, le idee su cui si basa l’intera narrazione sembrano nascere dal set scelto e dai personaggi che, a loro volta, le portano con loro, essendo De Angelis attento, in fase di sceneggiatura, sia al tema sia a uno scrupolo, potremmo dire, quasi antropologico verso i riti e la lingua. Di fatto ciò che meraviglia di questo regista è l’eccentricità delle storie narrate, che nascondono sempre un tema forte dietro: alla base di tutti i suoi film vi è l’impossibilità di uscire dalla propria condizione sociale e cosa comporti la ribellione, fulcro che per decenni ha legato sia il cinema medio (Bolognini) che ultrapopolare italiano (Matarazzo).
Se Indivisibili instaurava una dialettica tra il massimo del realismo (di nuovo Castel Volturno) e della finzione (le immagini hard dei corpi delle gemelle siamesi), Il vizio della speranza (che titolo magnifico) diventa un saggio sulla maternità e indugia su corpi femminili diversissimi, da quello ormai abbandonato a se stesso di Alba (Cristina Donadio) alle pance perennemente gravide delle prostitute che verranno traghettate. La forza del film sta proprio nei suoi tanti paradossi: la maternità continuamente mancata di chi capitalizza il suo corpo, così come la micro-società messa in scena che sembra vivere in un mondo pre-capitalistico nel quale gli unici vizi sembrano mangiare e fumare.
L’uso delle musiche e degli attori presuppone un sostrato di tipo popolare che, probabilmente, è ciò che fa allontanare maggiormente certa critica, ignara che nei Grandi Autori agiscono le stesse logiche, solo con una stilizzazione diversa. L’uso massiccio della musica di Enzo Avitabile da un lato non può soddisfare tutti i palati, dall’altro è un modo per sottolineare la natura degli ambienti diventati set, nonché di appellarsi a una determinata parte del pubblico (quel che faceva Matarazzo quando nei suoi film compariva, ad esempio, Giacomo Rondinella). Una musica che mescola passato (ritmi da tarantella e melodie mediterranee) e presente (arrangiamenti da musica commerciale), allo stesso modo in cui gli attori da un lato esprimono continuità con la tradizione partenopea (Cristina Donadio è una delle migliori attrici italiane, i suoi ruoli andrebbero analizzati dagli studiosi di gender studies; Marina Confalone e Massimiliano Rossi), dall’altro essa viene ibridata col nuovo (si veda la differenza tra i nomi succitati e la giovane Pina Turco). De Angelis è arrivato a mettere a punto un sistema stilistico pienamente personale, fatto di pedinamenti con la macchina a mano e sequenze lunghe (per un film popolare, s’intende) che empatizzano col personaggio mediante uno sguardo pudico: infine (forse per l’aiuto di Contarello in sede di sceneggiatura) i pedinamenti assumono significati in più proprio per una narrazione che rispetto ai film precedenti è diventata ancora più ondivaga, fatta di indugi e di parentesi che spesso non fanno procedere il racconto (la lunga sequenza della morte del cane), ma ci dicono qualcosa in più dei luoghi e dei personaggi. Cos’altro serve a De Angelis per essere reputato un autore?
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