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IO, DANIEL BLAKE

IO, DANIEL BLAKE

I, Daniel Blake foto2

Un cinema franco.

Non sta a noi sostenere se Io, Daniel Blake quest’anno meritasse o meno la prestigiosa Palma d’oro a Cannes 2016 (dato che molti film in programma non li abbiamo ancora visti né si sa se li vedremo). Si potrà sostenere da parte di chi contesta il premio che alcuni registi erano più meritevoli di altri e che Ken Loach, veterano del cinema inglese con un esordio datato 1967, da un lato è stato elogiato in quanto regista di riconosciuta fama da una giuria pigra, dall’altro che non ha più la forza di un tempo. Niente di più azzardato: non si spiega perché d’altro canto un film simile sia stato accolto in maniera un po’ indifferente dalla critica specializzata e se, una volta tanto, non sia il caso di contestualizzare i nostri (pre)concetti su cosa sia un autore e su cosa (il cinema) debba dirci.

La storia di Daniel Blake che deve chiedere un sussidio statale, data la salute precaria, e si affeziona a una donna single più povera di lui con due figli a carico, è, forse, la sola storia che oggi un cinema civile, sempre più raro, può raccontare. E Ken Loach lo fa con la potenza che gli compete: gli attori sono semisconosciuti (e notevolmente in parte) il che, lo sappiamo bene, favorisce maggior identificazione coi personaggi, mentre l’esclusione di qualsiasi musica extra-diegetica imposta il tono e contribuisce a mettere in primo piano le persone e i temi trattati. Persone, appunto, non personaggi. Potranno non avere un background estremamente definito, a volte agire troppo di fretta rispetto a quanto richiede una buona sceneggiatura: ma Loach non è interessato a filmare una storia nel suo svillupparsi, bensì a firmare un vero e proprio pamphlet d’accusa, in cui la normalità (che sia usare un computer o guadagnarsi da vivere) non è tale per tutti, se ci sono ancora persone che degli ingranaggi di una società contemporanea non riescono a far parte. Con l’eccezione dei Dardenne, in Occidente pochi posano il loro sguardo su queste storie. Inutile parlare di stile o di movimenti di macchina, la regia è invisibile perché in casi come questi bisogna parlare a tutti e non solo ai cinefili. Infatti mette tristezza sapere che Io, Daniel Blake verrà trattato dalla stampa e dalla distribuzione come un film d’essai, generando indifferenza in una certa fascia di pubblico.

E’ anche sbagliato vedere in Daniel Blake un alter ego del regista, perché Loach può descrivere e insieme incitare all’indignazione, ma come ogni grande regista civile sa che la lotta di classe non la si fa in una sala buia. Ci avvisa piuttosto della deriva alla quale siamo destinati se le cose descritte non cambiano: gli uomini muoiono nell’indifferenza più totale, la stessa che costringe le madri a prostituirsi (non solo fisicamente) per potersi permettere una vita decente. Che alcuni simboli siano scontati (Blake è un carpentiere che si è “costruito” una vita; le scarpe vendute dal suo vicino) è poca cosa, piuttosto era da tempo che al cinema non si vedeva un’opera in cui i personaggi sono tanto vivi e “reali”, i luoghi più veri del vero e in cui una visione vale più di tanti giudizi e chiacchiere superflue. Non parliamo in nome di un autorialismo di sorta, certi registi è meglio che girino “sempre lo stesso film”, piuttosto che confezionare opere che non pulsano di verità solo per dimostrare falso eclettismo. E francamente, in questo cinema ormai post-postmoderno (o ipermoderno), dati i giudizi che si sentono in giro, rischiamo di essere assuefatti ad immagini belle o pompose per poterci godere un cinema tanto franco nell’affrontare il reale.

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.