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Buster Scruggs foto2

Il western a episodi dei fratelli Coen.

Pare che La ballata di Buster Scruggs in origine dovesse essere una serie televisiva; di questa rimane, di fatto, la forma episodica e ad oggi è il film più lungo dei fratelli Coen. Ed è proprio sulla serialità che i Coen vogliono riflettere in questo ultimo lungometraggio, fedeli a un percorso cinematografico che celebra la morte dei generi e delle grandi narrazioni, e nel quale tutto è manierismo e autoriflessività. Fin dai primi film i Coen rappresentano “la cattiva coscienza del (brutto) cinema contemporaneo” in cui “l’eccesso di esibizione lascia trapelare una lucida coscienza del vuoto” (1). Si pensi al primo episodio, quello in cui è in scena Buster Scruggs: campeggia sullo sfondo una Monument Valley posticcia e, soprattutto nei primi piani, ci si rende conto di un’uso della computer grafica davvero eccessivo, al punto che ci si chiede se stiamo vedendo un film con attori o stiamo giocando a un videogame. Assuefatti alla piattezza dell’estetica Netflix (che, ironia della sorte, distribuisce il film) i Coen giocano su di essa; consapevoli che il loro film sarà visto per lo più sul piccolo schermo, riflettono sull’immagine omologata di film, serie tv e videogiochi: sembrano dire che, essendo il medium lo stesso, l’una vale l’altra in un triste rapporto di continuità. Si capisce come mai, per fare questo, scelgano proprio il western, un genere oggi poco frequentato e che dagli anni ’80 ad oggi (salvo la tarda modernità di un Eastwood) vive solo attraverso il recupero manierista, il che produce una doppia vertigine: il western a episodi per eccellenza (How the West Was Won/La conquista del West, 1962) segnava la morte del genere classico e il passaggio a una sua raggiunta modernità (2) con l’ennesimo tentativo del cinema di combattere la tv (per mezzo di un’alta dose di spettacolo) coi suoi stessi mezzi (la struttura seriale), qui invece vi è una resa totale, seppur col tipico ghigno coeniano.

Il personaggio di Buster Scruggs, per di più, sembra imparentato col cowboy di Ave, Cesare! che a sua volta era il personaggio di un film nel film; anche se i piani della finzione si moltiplicano sempre più, l’immaginario cinematografico che agisce all’interno di questi episodi è più imparentato col cinismo degli spaghetti-western (che era un genere già a suo tempo manierista) che con quello classico. Infatti nel secondo episodio abbondano i riferimenti a Sergio Leone: il cappotto indossato da James Franco viene direttamente da C’era una volta il West, così come l’amalgama sonoro della prima sequenza; e la rapina in banca si svolge a Tucumcari, lo stesso paese in cui era ambientato Per qualche dollaro in più, in un episodio che sembra girato da un Corbucci in vena di massimalismo (alludo a quello di Vamos a Matar Companeros, I mercenari). E qui rientra, dal punto di vista del contenuto, il rimando al Caso che toglie qualsiasi significato agli eventi della vita e che è presente in tutti i film dei Coen: proprio quando il nostro eroe sta per morire, intravede la donna-angelo che potrebbe salvarlo, ma muore lo stesso.

Il terzo e l’ultimo episodio (il sesto) colpiscono, a differenza di quanto detto finora, per l’importanza che la parola assume rispetto all’immagine. Nel primo caso, in cui tra i tanti racconti viene citata la poesia Ozymandias di Shelley, guarda caso di nuovo celebre grazie a Breaking Bad, si vuole sottolineare come sia sempre esistito un pubblico desideroso di storie e incurante dell’origine (si passa senza soluzione di continuità dalla Bibbia a Shakespeare), nel secondo caso, dopo aver citato Leone, i Coen sembrano voler prendere in giro l’iperdialogato primo atto di The Hateful Eight, ma mettendo in scena la vecchia moralista che richiama Lucy Mallory di Ombre Rosse mandano in corto circuito i riferimenti tra imitazione e originale: come già accadeva nel brutto film di Tarantino, non c’è la stessa forza perché manca il rovescio della medaglia, ovvero la vessata prostituta Dallas del film di Ford.

Sorvolando sul quarto episodio, con un Tom Waits irriconoscibile, solo il quinto sembra uscire dal semplice aneddoto, ed è sicuramente il meno sciocco e il più riuscito. Perché dall’inizio del film è il primo episodio in cui compare una figura femminile forte e la narrazione si prende i suoi tempi per far crescere e analizzare i personaggi: peccato che il finale sembri una variazione posticcia sui vari colpi di scena di Non è un paese per vecchi. Al di là di tutte le riflessioni che si possono fare, Buster Scruggs sembra occupare una posizione minoritaria all’interno della filmografia dei Coen: come già per il loro unico altro western (Il Grinta), ciò che lo rende interessante sono le riflessioni che si possono fare a posteriori, e non il contenuto intrinseco delle storie narrate. Operando all’interno di un genere, come si è detto, già manierista come il western si rischia il film programmatico e tutto “di testa”, trappola nella quale i Coen sono purtroppo caduti. Certo, già lo spaghetti-western italiano eccedeva nel manierismo, ma almeno sabotare il genere aveva ancora un significato, serviva a rinnovare il linguaggo cinematografico, con film come Matalo!, Se sei vivo spara o Un dollaro tra i denti. Forse il senso ultimo di avere un film dei Coen su Netflix è allora questo: scollegarsi da Internet e mettersi a recuperare i film del passato, perché oggi non c’è più niente da raccontare.

(1) Vincenzo Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro, 2002, pag. 17

(2) Il 1962 è infatti l’anno in cui Peckinpah dirige Sfida nell’Alta Sierra e Ford segna la fine del mito con L’uomo che uccise Liberty Valance.

voto_3

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.