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LA DONNA DELLO SCRITTORE

LA DONNA DELLO SCRITTORE

Transit foto2

La città dello spirito.

Forse in Transit (La donna dello scrittore è un titolo italiano che non significa niente, o molto poco, una volta visto il film) Christian Petzold confida troppo nella sua capacità di acchiappare il film per la coda, di far nascere senso spargendo lo stesso in frammenti che si isolano l’uno dall’altro, in sé “sensati” ma con le sembianze di lacerti che vagano nella mente del narratore (ma quale? ce ne sono diversi all’opera) e infine rimbalzano in prossimità dello spettatore quasi per l’ultima sfida. Tuttavia, sebbene il manierismo sia a un solo passo di distanza perché attualizzare al 21° secolo il libro di Anna Seghers significa dover fare i conti con i resti di un cinema europeo ormai saziato di sguardi sui medesimi temi del libro, Transit non assomiglia a quasi niente altro. Quasi, dal momento che si può agilmente dispiegare uno spettro di rimandi non indifferente.

L’intuizione principale è però quella di azzerare la distanza temporale e modulare la vicenda negli spazi di una Marsiglia che è trappola e insieme soglia di qualcosa che si conosce appena, che si intuisce ma che non si afferra. Georg e le altre anime che in città attendono (chi il ritorno di qualcuno, chi la fine, chi una partenza) hanno la consistenza di ombre, ma trattengono anche il contorno dei loro sogni. Costruire il film sull’inconsistenza, delle ombre e dei sogni, rappresenta una forte infrazione alle attese: la “carne” della prima mezz’ora di film, in cui la fuga da Parigi prima dell’occupazione è segnata da un suicidio e dalla morte dello scrittore compagno di viaggio sul treno (con la coda dei soldati tedeschi che trascinano giù il corpo, in una sorta di dejavù di tante pellicole belliche), è sostituita dall’evanescenza degli atti e dei fatti nella città-limbo, sublimata nel suo porto da cui è così difficile imbarcarsi e partire. La Marsiglia di Transit è infatti in ultimo più che altro un non-luogo in cui le azioni sembrano per lunghi tratti non sortire esito (o sortirne di poco attesi), una città nella quale la vita rallenta in attesa degli avvenimenti e quasi tenuta in scacco da una strana indolenza, come in un vecchio noir dove il protagonista sappia già di essere destinato alla sconfitta comunque la storia finisca (1).

Manca forse a questo film la forza che proprio in chiusura esprimeva il precedente Phoenix (Il Segreto del Suo Volto), è peraltro facilissimo considerare la continuità del discorso di Petzold attraverso le identiche figure. Eppure la sensazione è che ci sia di più, in Transit. Mi azzardo a dire la mia: nell’ultimo film del regista tedesco c’è il tentativo di cancellare la percezione del “prima” e del “dopo”. Non si parla semplicemente di un prima e di un dopo storici, non è l’indignazione la vera posta del film: si tratta di un prima e di un dopo unicamente cinematografici, lasciati a convivere con la speranza che non si ceda alla differenza, che allo spettatore non scappi la tentazione di rimetterli in ordine, che egli cioè li accetti per coesistenti, resistendo alle pastoie della rassicurante cronologia. L’effetto è meno sperimentale e più, invece, sentimentale di quanto sembri. Sale, in Transit, uno stato d’animo che confonde ma tonifica, suscita e promette. È un film che forse è troppo impregnato di domande per ammettere la sicumera delle risposte a cui si cerca di ridurlo (la gran parte della critica ha fatto proprio questo). E la sensazione è che la sola rassicurazione di Transit sia quella della fede in una ricerca che non è ancora compiuta, attraverso i volti e le interrogazioni dell’anima (cosa sono i personaggi del film se non simulacri della vita interiore?). Mi piace pensare che Transit abbia molto più a che fare con l’esistenzialismo (la Marsiglia incubatrice del film non ha qualcosa in comune con l’Orano della Peste di Camus?) che con l’attualità.

(1) L’evidenza del rimando, verso il finale, a Casablanca è tanto netta che la si cita solo in nota. Ma è solo una delle molte citazioni possibili.

voto_4

 

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.