Architettura di una (romantica) disperazione.
Nel lungo ed evocativo libro-intervista che Cameron Crowe ha dedicato a Billy Wilder, il regista di Quasi famosi racconta di come fosse rimasto colpito dalla modernità del linguaggio dei personaggi, specie durante gli scontri verbali tra Sheldrake (Fred MacMurray) e Baxter (Jack Lemmon), avvalorando ancor di più il pensiero comune che vede Wilder fautore di un cinema di parola. Niente di più vero, ma non solo: seppur sempre inoppugnabile sostenitore della pagina scritta, allergico a orpelli stilistici fini a se stessi – atteggiamento questo che gli ha procurato più di qualche detrattore – Wilder è stato anche un grande regista “visivo”, capace di ampliare il campo filmico grazie al lavoro sugli spazi e sulla profondità di campo. E quale film più de L’appartamento, opera tra le sue più perfette, se non in assoluto almeno nel periodo contraddistinto dal sodalizio professionale con I.A.L. Diamond, lancia l’uso dello spazio, sia interno che esterno, come vero e proprio personaggio nei film delle epoche successive?
E infatti il risultato è a dir poco enorme. L’appartamento è unico in quanto primo film di Wilder, e tra i primissimi film americani, a dare forma concreta alla modernità del vivere occidentale e metropolitano, caratterizzato in apparenza dalla solitudine del protagonista nel suo appartamento: un patrimonio personale che può essere eroso, un rifugio da cui venir cacciati (Baxter non può far rientro a casa quando vuole, vista la frequente occupazione della sua abitazione). Si tratta del sintomo di una nuova malinconia che Wilder aveva introdotto nel ridisegnare i luoghi a partire dalle sue commedie degli anni ’50. Succedeva già, con maggiore forza, in Quando la moglie è in vacanza, dove gran parte della storia di un potenziale fedifrago un po’ babbeo che rinuncia a Marylin Monroe, prendeva corpo su e giù per due piani dello stesso caseggiato. L’appartamento invece si staglia come film epitome di questa nuova tendenza “domestica” e diventa una trasformazione a vista, palpabile, di un luogo abitativo in uno spazio esistenziale assoluto (per l’eroe, quasi fossimo in una parafrasi tragicomica del mito dell’Odissea, è ancora una volta impossibile tornare a casa sua).
Ma questa tendenza raggiunge il suo zenit nell’unico luogo in cui Baxter tenta di trovare riparo, un rifugio infernale che altro non è che la compagnia di assicurazioni per cui lavora, e nella quale spera di alleviare le sue pene facendo carriera. Le direttrici orizzontale e verticale divengono gli assi cartesiani di inquadramento sociale e morale. Il conflitto principale sul piano narrativo diventa geometrico: l’arrampicata sociale che abbandona l’etica di fondo. Wilder infatti pone come punto di partenza per Baxter un’assoluta orizzontalità. Lo vediamo scalpitante in attesa di raggiungere i “piani alti” nella sua piccola scrivania in mezzo a centinaia di queste perfettamente allineate, anime ammassate in giganteschi stanzoni laccati e ordinati (pare che per la realizzazione di questa immagine, piuttosto potente, il regista si fosse ispirato a La folla di King Vidor).
Tuttavia l’opposizione non è solo spaziale, ma si manifesta anche nel tono e nel genere del film. L’appartamento è una commedia oppure no? È un dramma? Forse. Di certo (?) è una love story, che si traveste però da studio sul capitalismo e sulla sua deriva più bieca. Non semplice imbarbarimento dei tempi, ma regressione della cosiddetta civiltà a uno stato selvaggio nel quale vige una gerarchia tribale la cui messa in scena è favorita dalla commistione di generi. Nel film, a differenza di quanto succedeva nelle precedenti “commedie del travestimento” del regista in cui venivano stilizzati e ricoperti dalla sottile ed elegante patina di allegria, i temi assumono una forte concretezza e le conseguenze presentate sono estreme. Il tutto per raccontare i rapporti svenduti che la società moderna instaura tra le persone, pronte alle più disparate forme di prostituzione individuale, descrivendo senza illusioni il cinismo e il pragmatismo della vita quotidiana.
Nonostante tutta questa sgradevolezza, ci fu chi accusò Wilder di eccessiva indulgenza per alcuni tocchi di dolcezza che mitigavano l’amarezza di fondo (si veda il finale). E la replica non si fece attendere: “Ho ritratto gli americani come bestie… non ho mai pensato che L’appartamento fosse una commedia” dichiarò in seguito. Che si tratti di una commedia oppure no, Wilder è Wilder e conserva intatta la sua visione del mondo fatta di raggiri e travestimento, la cui epitome è raggiunta nella grandiosità de L’appartamento. Baxter è infatti costretto ad ammettere la verità del suo inganno, un imbroglio gigantesco che supera i limiti impostisi dal regista nelle opere precedenti. Fino a quel momento ad assumere differenti identità erano state persone e piccoli oggetti, ora viene messa la maschera a un intero luogo: un appartamento vestito da garçonnière (il titolo che la distribuzione francese scelse all’epoca) e ridotto a casa d’appuntamento; triste, fotografato quasi sempre in penombra, e che sappiamo svilupparsi solo in orizzontale, decisamente troppo grande per una persona sola. In totale contrasto con l’abitazione di Sheldrake, una casa grande, su più livelli (ancora una volta un’immagine verticale), con all’interno l’idillio del Natale, ovvero moglie e figli sotto un grande albero, grazie al quale ritorna l’opposizione, strutturale e morale, su cui si regge il film.
Naturalmente questa è solo una lettura che chi scrive ha la presunzione – passatemi il termine – di offrire a proposito di questo film. Denis Zordan a suo tempo mi raccontò di averci scritto un pezzo accomunando l’opera al “nostro” Fantozzi, a testimonianza del fatto che L’appartamento è ancora in grado di suscitare infinite ispirazioni. Quelle che Wilder, a detta sua, non riuscì più a trovare nelle opere successive. Forse, penseranno in molti, è stato fin troppo duro con se stesso, ma ciò che importa è che ancora oggi possiamo godere di questo capolavoro.
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