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VS foto4

Come in una fiaba.

A giudicare dai giudizi in rete, chi aveva amato Martin Eden è rimasto deluso dal secondo lungometraggio di finzione di Pietro Marcello. L’attore di richiamo (lì Luca Marinelli, qui Louis Garrel) compare dopo troppo tempo e rimane per poco, lì tutto era spiegato qui alluso, mentre la fiaba ha preso il posto dell’agit-prop, raffreddando l’immedesimazione dello spettatore, soprattutto senza un protagonista carismatico (poi corrotto, elemento che ne accentua il fascino) e monologante. Il che, si dirà, è questione di gusti, ma c’è il rischio della pigrizia da parte della critica e dei cinefili: L’envol è invece la prosecuzione e il potenziamento di un discorso, la conferma di un Autore fedele a se stesso che, non facendo una copia carbone del film precedente, fa evolvere il proprio discorso.

Da noi gli adattamenti letterari riguardano solo Premi Strega o biopic su scrittori arcinoti, alzi la mano in quanti invece hanno letto qualcosa di Aleksandr Grin (1), un adattamento sentito dal momento che non c’è nessun romanzo da vendere o da assicurarsi alcuna scolaresca al cinema. Marcello piega il romanzo alle proprie esigenze. Di nuovo, non c’è alcuna didascalia ad informarci in che anno siamo, ma si presuppone che il protagonista stia tornando dalla prima guerra mondiale, e il film è spaccato ancora in due da un’enorme ellissi centrale. L’envol complica il discorso: arrivato a metà, il film sembra riavvolgersi, aprendosi e chiudendosi con uno stupro, e instaurando nel rapporto tra padre e figlia un rispecchiamento e dei ritorni. Entrambi sono artisti emarginati: lui è un artigiano a cui l’abilità manuale dà di che vivere ma sogna di fare sculture, lei è amica di una strega e trova l’evasione dalla solitudine musicando le sue poesie preferite. In queste vite, gli unici sbocchi sono la disillusione e la morte, seppur solo fisica dato che l’agognata scultura di Raphael servirà da testamento di una vita in isolamento. Testamento anche di un mondo che stenta sempre di più ad accettarlo, rigettandolo in nome dell’avanzamento tecnologico: l’introduzione della meccanicità, anche in un mercato piccolo come quello dei giocattoli, rende obsoleta la sua manualità ed è questo il tratto segnante dell’eclisse a metà della fabula. Tutti temi che erano già presenti in Martin Eden, ma qui sono solo accennati e si lascia all’intelligenza dello spettatore saperne trarre i significanti. In più, come ne La bocca del lupo, il vettore narrativo è nel ritorno al villaggio dopo la guerra (nell’altro era dopo il carcere) e nell’alienazione che l’imbarbarimento di quest’ultimo determina nel protagonista (2).

Marcello ha spesso citato come suo film di maggior ispirazione lo sconosciuto Viburno Rosso (1974, Vasilij Šukšin), visto a Venezia Classici nel 2019. Lo stile di regia di L’envol ne subisce l’influenza addomesticandola grazie a un uso dello zoom e del contesto bucolico più centrato su uno sguardo pienamente occidentale. Toccherebbe rivederlo e citare scene specifiche per soffermarsi sull’originalità di Marcello nell’ampliare la narrazione, grazie a un montaggio spesso in controtempo, aggiungendo inquadrature su dettagli all’interno di una sequenza, con un ritmo che di rado si vede nei film italiani (o francesi). La commistione di filmati di repertorio e riprese sul set è meno frequente rispetto ai film precedenti, ma c’è un attenzione inusitata all’uso del colore, usando una palette molto specifica che accentua il senso di fiabesco: avvantaggiato da una post-produzione a partire da una pellicola che dà immagini quasi oniriche. Nella breve ma significativa apparizione di Louis Garrel può esserci anche un ricordo del bellissimo e sempre poco ricordato Il cielo è vostro (1944, Jean Gremillon). Una fiaba, quindi, che unisce in sé il male, con tanto di ninfe e strega buona, e i quattro elementi naturali (acqua, terra, vento e aria) tra pellicola e digitale. A vedere com’è stato accolto, forse non ce lo meritiamo.

(1) Confesso di conoscerlo solo per via dell’adattamento di un suo racconto da parte del cecoslovacco Juraj Herz (Morgiana, 1972), tra i registi di punta della Nova vlna, film tra l’altro anch’esso fiabesco (in senso gotico) e mortuario.

(2) Tema non nuovo nel cinema italiano seppur declinato quasi sempre in chiave di commedia: possiamo ricordare infatti Il mondo vuole così (1945, Giorgio Bianchi) e A cavallo della tigre (1961, Luigi Comencini): nel primo il protagonista non si riconosceva nel mondo dell’immediato dopoguerra, nell’altro nell’inacidita Italia del boom economico.

voto_5

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.