L’ingrediente segreto per diventare Jeeg.
L’onda lunga del primo lungometraggio di Gabriele Mainetti, Lo Chiamavano Jeeg Robot, non accenna a fermarsi, fra premi e costanti proiezioni.
Ci siamo allora chiesti, in un panorama così ormai indecifrabile come quello del pubblico cinematografico italiano, quale potrebbe essere stato “l’ingrediente segreto” che ha tributato un successo tanto insperato quanto benvenuto per una pellicola così altra, così insolita per il nostro panorama autoriale.
E rivedendo il film con uno specialista abbiamo allora messo a fuoco alcuni punti più nascosti, alcuni “grimaldelli” psicologici che potrebbero spiegare l’incunearsi della pellicola nel pubblico generalista.
Lo chiamavano Jeeg Robot: lui non era Jeeg Robot, ma lo chiamavano Jeeg Robot. Il titolo del film è già un rimando a “lo chiamavano Trinità..”, sobria e divertente parodia dei più cruenti western, in cui troviamo un anti-eroe pigro e svogliato.
Questo richiamo ad un universo parodistico contiene già un anticipo di ciò che il film metterà in scena: una storia grottesca, in cui esiste una voluta sproporzione degli elementi che costituiscono i momenti drammatici. Si allude all’incontro dialettico fra un piano concreto ed un piano simbolico, fra un mondo in cui qualsiasi possibilità trasformativa è negata, ed uno in cui, invece, la capacità metabolica è offerta da una possibilità di simbolizzare che nasce dall’incontro e dalla relazione. Da una parte quindi il mondo che macina, tritura, o, alla meglio, offre come unica via d’uscita lo sprofondare acriticamente in esso; dall’altra invece un mondo in cui è possibile trasformare il non detto, per quanto angosciante e paralizzante, in un pensiero, in un gioco di relazioni che permetta di tessere una trama tale che essa stessa funga da rete e da sostegno per non cadere nell’abisso.
Enzo Ceccotti è una monade, un organismo autosufficiente che si tiene a galla nel mondo come può; ha l’aria trasognata, si muove, agisce; i giorni trascorrono per lui uno dopo l’altro, quasi non sembrano avere un filo conduttore se non la sua mera esistenza. È un personaggio senza storia, stretto fra la ripetizione della compulsività e l’istinto di sopravvivenza. Il suo appartamento è squallido, grigio, sporco, non ha alcun tratto di umanità o di personalizzazione e lui si nutre esclusivamente di budini, non quindi un cibo nutriente, qualcosa che possa dare al corpo ciò di cui ha bisogno, come a segnalare la mancanza di una qualsiasi attività metabolica. È come se egli fosse capace solo di provvedere unicamente – e forse neanche completamente – alla sua sopravvivenza. Si anestetizza dal dolore trattandosi come un “animale”; anche i dvd pornografici, che macina instancabilmente, rimandano ad una compulsività ossessiva, eterno ripetersi di un atto sessuale che non è sessualità, ma è spogliato di qualsiasi rimando ad un incontro, connotato solo come atto animalesco, inteso a stimolare un’eccitazione sessuale che ha come unico scopo la “scarica”.
L’orizzonte in cui ci si muove è quindi quello della scarica: le emozioni non hanno spazio per essere sentite e poi sperimentate, e se punzecchiano appena la coscienza, esse si traducono subito in agito.
La generale sensazione di torpore che potrebbe sembrare caratterizzante nella vita di Enzo nasconde però, in realtà, una grande vitalità, un grumo interno di passioni ed emozioni cui egli non riesce a dare voce, o meglio a dare parola. Così lui non trova altro mezzo per sopravvivere che la sua regressione ad uno stato primitivo.
Il mondo in cui si muove è il mondo dei “ragazzi di vita”: un mondo primitivo ma spinto e mosso da istinti e passioni vitali, che non trovano una dicibilitá, e che non possono che scaricarsi, agirsi. La sua vita si regge sugli espedienti, su piccoli furtarelli quotidiani, partite di droga, scambi, affarucoli per mantenersi a galla nel limaccioso fiume della malavita romana.
Accade poi, però, che in questo fiume Enzo debba affondare: durante una fuga si getta nelle acque del Tevere, e ingurgita una certa quantità di scorie tossiche. Enzo scende nell’abisso di quella primitività, nel fondo limaccioso e denso, velenoso, potenzialmente pericoloso, potenzialmente mortale. Ne riemerge con un gran febbrone, sta male e vomita per una notte intera; si accorgerà quindi di aver acquisito dei curiosi superpoteri, ma non saprà ancora come usarli; è come conoscere i primi rudimenti di un nuovo linguaggio, un nuovo alfabeto di cui non si conoscono le regole grammaticali e sintattiche. E difatti lui lo userà nel solo modo che conosce: pensa subito di andare a svaligiare un bancomat.
La maschera di Enzo – Jeeg è un vertice simbolico attraverso cui ricostruire il percorso del protagonista del film: una volta acquisiti i superpoteri, Enzo si protegge con un cappuccio di felpa ed uno scaldacollo di pile neri. La maschera è funzionale alla protezione; ciò che è dentro di lui come un nuovo lessico non gli dona un’identità ed in nessun modo gli offre la possibilità di mostrarsi.
Ciò che pian piano inizia a fare la differenza è l’incontro con Alessia, che dona ad Enzo l’opportunità di tessere una trama. Alessia vive in un mondo tutto suo, ma lei ed Enzo parlano lo stesso linguaggio, il linguaggio di una sofferenza e di un dolore indicibili, inscritti in una parte della coscienza che non aveva ancora parole, e che quindi non le può utilizzare; parlano il linguaggio di chi nasconde un vissuto traumatico dietro ad un altro mondo, per lei fantastico, per lui privo di qualsiasi stimolo o emozione. Alessia dona una storia, regala una trama ad Enzo: lui è Hiroshi Shiba, ragazzo che può diventare Jeeg, un cyborg che ha miniaturizzata nel cuore una campana appartenente ad un antico e terribile popolo che ha fatto della sopraffazione dell’uomo sull’uomo la sua legge precipua e che minaccia l’umanità; solo Jeeg, con il suo cuore che contiene tale campana, può salvare l’umanità. Ancora il richiamo ad una dimensione primitiva e minacciosa, che ha bisogno di essere scandagliata, conosciuta, elaborata ed assunta per poter essere utilizzata in senso contenitivo.
Grazie all’incontro con Alessia, Enzo trova un vocabolario, un lessico che gli permette, a poco a poco, di simbolizzare e dare parole a quel grumo di sofferenza e di dolore appiattiti sotto un granitico blocco difensivo. Lui stesso chiede a lei in una scena del film “insegnami tu”, riconoscendo la propria incapacità di amare e ancor prima di entrare in relazione.
Notiamo del resto come la discriminante sia l’incontro con Alessia dal fatto che lo stesso tuffo nelle stesse acque non innesca nello Zingaro lo stesso tipo di processo: lì il superpotere resta concreto, resta un fatto, inteso in senso strumentale, non prende la via del simbolo.
Nell’uso di pensiero psicotico di tipo concreto, il «fatto esterno» viene utilizzato come una barriera difensiva contro la elaborazione emotiva e conoscitiva (Segal); l’elemento di concretezza invece per Enzo si fa via via più rarefatto, si perde la strada della concretezza per abbracciare quella del simbolo: i suoi superpoteri sono una trasfigurazione simbolica di quella trasformazione in atto che si sta compiendo grazie a e all’interno della sua relazione con Alessia; il gioco, il simbolo, il grottesco del mezzo cinematografico diventano espressamente la chiave con cui poter elaborare e rendere dicibili contenuti altrimenti inelaborabili. La relazione è il tramite narrativo attraverso cui si attua la trasformazione; ma forse è proprio nel linguaggio e nel codice narrativo utilizzati che possiamo ravvisare la traccia più evidente della riuscita di tale processo elaborativo e metabolico.
Seguendo il vertice osservativo simbolico della maschera, vediamo come l’incontro con Alessia ancora una volta sparigli le carte: quando lei scappa e lui è costretto a fermare il tram a viva forza per parlarle, Enzo non indossa alcuna maschera. È lì che lui si mostra, perchè qualcuno lo può finalmente vedere per quello che è, qualcuno gli offre la possibilità di specchiarsi, e infine vedersi.
Incontrando Alessia, lui riesce ad incontrare una parte di sé, la parte traumatizzata, la parte folle, e impara a prendersene cura, anche se in un modo impacciato, infantile. La morte di Alessia lascia Enzo inevitabilmente solo, ma dentro di lui è rimasto il nuovo alfabeto appreso grazie al loro incontro, e con questo strumento lui potrà essere in grado di andare avanti e raccontare, adesso da solo, la sua storia.
Il finale del film sembra alludere anche a questo: nell’ultima scena vediamo Enzo lanciarsi nel vuoto dal Colosseo, portando dentro di sé ciò che ha interiorizzato della relazione con Alessia, che come atto compiuto ritroviamo ancora una volta e per l’ultima volta nella maschera tessuta a mano da lei; ma, un po’ come accade alla fine di una relazione analitica, ciò che si è compreso, ciò che anche dopo la fine continua a vivere dentro, può fungere da rete, da trama, può aiutare a non schiantarsi se ancora si mantiene la fiducia di poterla usare come tale; ma la realtà è che il finale è sempre in divenire, ancora da scrivere, da lavorare e negoziare di volta in volta.
La scena finale del film è forse emblematica in tal senso: Enzo si mette la maschera di Jeeg, ma è una maschera tessuta a mano da Alessia. Non si vuole alludere ad un aspetto finto, esteriore, patinato di un supereroe senza macchia e senza paura, astratto e irragiungibile; Enzo è tremendamente umano, la sua maschera è tessuta a mano, è una trama resa possibile dal dispiegarsi di una relazione, che gli serve per dare vita e consistenza al suo diventare Jeeg.
(in collaborazione con la dott.ssa Francesca Franzì, psicologa)
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