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Il noir milanese con Pierfrancesco Favino.

La città di Milano è forse la vera protagonista di L’ultima notte di Amore, un noir perlopiù notturno, nonostante gli attori siano tutti eccellenti. I titoli di testa compaiono su droni che inquadrano delle autostrade, chiara metafora non solo di urbanità, ma anche della strada da seguire, nel senso di scelta che devia a ogni tappa di un percorso, proprio come quello del protagonista. Un poliziotto proletario, su cui sin dall’inizio cala un senso di ineluttabilità, con tanto di piano che andrà a finire male: ed è in questa soluzione narrativa che il film ha il coraggio di osare ed è riuscito, come rivela anche la brevissima inquadratura finale. Facendo perno sul tema della corruzione e sulle sue ricadute che ha sempre garantito risonanza e successo al genere di riferimento, lo spettatore è chiamato ad empatizzare col protagonista capendone le ragioni e confrontandosi con un mondo del quale ha solo sentito parlare, ritenendosi in sostanza estraneo.

In più L’ultima notte di Amore è soprattutto un film sulla mancata integrazione: ogni personaggio è a Milano non per un fatto di nascita o per un sentimento di appartenenza, ma solo per lavoro o affari. Per lo più calabresi e cinesi e un collega napoletano sopravvivono come in un mondo a parte all’interno della propria quotidianità, emarginati e in proprio all’interno di un sistema e di un contesto che sembra accettarli solo se producono denaro.

L’interesse suscitato dai migliori polizieschi italiani degli anni ’70 stava nel loro selvaggio attaccamento alla realtà e nella resa cinematografica che poteva tranquillamente competere con certi modelli USA di serie B. Il richiamo a questa cinematografia in L’ultima notte di Amore si limita apparentemente a pochi elementi (le musiche incalzanti dall’inevitabile effetto retrò per cui si è spesso citato come influenza Stelvio Cipriani, i titoli di testa), ma in realtà instaura con essa una sintonia più profonda. La fotografia livida e i tempi cinematografici dilatati per creare tensione sono più vicini ai moderni polar rendendo L’ultima notte di Amore un film facilmente esportabile; il montaggio che più volte contrappunta la narrazione con i pensieri del protagonista sembra più vicino a Kinatay (o all’eterno caposaldo Vivere e morire a Los Angeles, anche per via della messa in scena della stupenda parte centrale), fungendo da ricapitolazione verso lo spettatore e consentendo un approfondimento del protagonista insolito nei recenti film italiani, andando cioè ben oltre lo stereotipo.

Parlare di un film come L’ultima notte di Amore senza scadere negli strilloni da quotidiani non è facile: un notevole film di genere la cui perfezione nel disegno di sceneggiatura fa sì che sia di semplice ricezione da parte di qualsiasi fascia di pubblico (pubblico che, per fortuna, l’ha premiato con quasi tre milioni di incasso). Andrea Di Stefano, dopo due film realizzati all’estero, non intende confrontarsi con l’immaginario poliziesco italiano, anche perché questo è limitato a produzioni televisive che per limiti strutturali non possono osare. Non esiste nemmeno terreno di paragone. Alaska poteva avere un’ambientazione e una visione del mondo simili, ma è di 8 anni fa; mentre il modesto Falchi, con il suo richiamo esplicito a Hong Kong nel suo legare il noir con gli uomini del sud e gli immigrati cinesi, è anche quello di 6 anni fa. Speriamo che per i produttori un film come questo diventi la regola e non più l’eccezione, indicando una nuova strada da seguire e dimostrando che con le star e un elevato livello tecnico si può osare ed essere ripagati dal pubblico.

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.