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MAGIC IN THE MOONLIGHT

MAGIC IN THE MOONLIGHT

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Fare cinema per riscrivere la vita, non per esorcizzare la morte.

Uno dei luoghi comuni più abusati nel discorso medio sul cinema è che quando i registi invecchiano perdono la capacità di stare al passo con i tempi o con il loro stesso cinema (passato).

Con il Woody Allen del XXI secolo, di questa sorta di teorema si è fatto un uso irritante e un po’ sconsiderato, bocciando con sufficienza film che richiederebbero quantomeno uno sguardo partecipe, meno notarile e più libero dai pregiudizi. Con il cinema del regista newyorchese infatti si assiste alla sublimazione del fenomeno sopra descritto, liquidando con poche parole i film che non si considerano all’altezza del cinema passato di Allen. È però merito di Pier Maria Bocchi nel suo “Woody Allen – Quarant’anni di cinema” (Le Mani, 2010) aver richiamato l’attenzione sulla pigrizia con cui molti che si pongono di fronte a questo cinema insistono a giudicarne i progressi con un metro inadeguato o del tutto errato. Con un pizzico di irriverenza, è lecito chiedersi se ad essere invecchiato sia Allen o se invece lo sia il pubblico che ne segue (almeno questo) fedelmente, una volta all’anno, la carriera registica.

Magic in the Moonlight, che segue il complessivamente apprezzato Blue Jasmine (2013), ha infatti in apparenza proprio le caratteristiche dell’Allen “minore”, categoria che pare accomunare (terminologia a parte) il pubblico e la critica, la quale nei confronti di questo autore non sembra scostarsi molto dal gradimento degli spettatori paganti. Nelle schermaglie tra i personaggi di Colin Firth ed Emma Stone in Magic in the Moonlight, non si ritroverebbe infatti quella brillantezza e vivacità di dialoghi, di ritmo, di battute fulminanti sulla vita, sull’arte, sull’amore e sulla morte che hanno reso proverbiale il regista di Io e Annie. Tanto basterebbe, in genere, per alzare le spalle e sostenere che si tratta di un incidente di percorso o, cosa che alcuni hanno suggerito persino di recente, di un film “alimentare” (come se Allen dovesse avere davvero bisogno di farne).

Difficile concordare, quando la precisione della scrittura confeziona una prima ora e un quarto di film così oliata da rasentare la briosità sentenziosa di alcune commedie shakespeariane. La forza dei dettagli guida verso una comprensione della tragedia filosofica di Stanley – talmente spaventato dall’inspiegabile che continua a oscillare tra la negazione razionale più acerrima e l’adesione quasi entusiasta e un po’ acritica in seconda battuta – che raramente si ritrova nel cinema di questo autore. Allen non ha più bisogno di gag e, se le situazioni hanno un versante divertente, al massimo dedica loro una battuta amara o un sorriso struggente: che si indovina per esempio dietro la magnifica scena in cui, quasi alla fine, Stanley arriva a comprendere, esterrefatto e anche no, il suo amore per Sophie.

Tutto questo Allen lo fa senza forzature. Non gli serve più alcuna gabbia di genere: il giallo di Misterioso Omicidio a Manhattan, il film espressionista di Ombre e Nebbia, il dramma bergmaniano di Un’Altra Donna e persino – come tarda derivazione – di Blue Jasmine, il film felliniano di Stardust Memories, la screwball comedy di La Maledizione dello Scorpione di Giada erano tutti indicatori di genere. In Magic in the Moonlight la riflessione sul ruolo dell’arte che scivola inavvertita dentro l’esistenza, sull'(auto)inganno, sulla solitudine e sulla contrastata inevitabilità di aprirsi in qualche modo all’amore è così nuda, dietro le immagini, da apparire infine emozionante senza nemmeno suggerirla con artifici di regia o ammiccamenti di qualsiasi tipo. Il cinema cede il passo al sentimento del vivere, crudo e diretto, ed è forse questo che disturba di più chi dal cineasta di New York chiede ancora motti di spirito e situazioni demenziali.

Via dal genere, e via dal cinema; l’ambizione di Allen in Magic in the Moonlight è quella di sottrarsi alla riconoscibilità e alla somiglianza con qualcosa, il suo vecchio cinema o anche “altro” cinema: ma non è così ingenuo da credere di potersi fare beffe del confronto col passato. Basterebbe la scena dell’osservatorio, citazione “per caso” di un’altra scena molto più celebre, per vedere come Allen sia consapevole che esso è lì, appollaiato accanto al suo cinema di oggi. Credo sia questo a rendere tanto prezioso quest’ultimo lavoro, il commovente, testardo desiderio di continuare a vivere facendo film non per esorcizzare la morte (che sarebbe banale) ma per, letteralmente, riscrivere la vita pur con tutte le sue imperfezioni e la coscienza di essere destinati a sbagliare ancora. L’Allen di un tempo non c’è più, nemmeno quando c’è – citato, alluso, titillato – e quel che rimane riparte da capo.

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Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.