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La storia sognata.

Come altri prima di lui (Di Costanzo, Gaudino, Fasulo), era inevitabile che Pietro Marcello approdasse al cinema di finzione tout court: ma, come spesso accade in questi itinerari, Martin Eden ci sembra porsi più come un punto di arrivo, una maturità attraverso una narrazione ad ampio respiro, che come un cambio di registro, perché tale non è. Il metodo usato, infatti, è lo stesso dai tempi di La bocca del lupo: i filmati di repertorio non vengono usati solamente per allargare lo sguardo sulla città e sui personaggi che non fanno parte della storia narrata pur appartenendo allo stesso contesto, ma spesso anche all’interno della medesima sequenza, complicando ancora di più la distinzione tra il materiale “girato” e quello proveniente dagli archivi. L’eterogeneità, però, non stona, data la scelta di girare il film in pellicola (1).  Il classico di Jack London viene qui sottoposto a un’operazione ardita, quella di orchestrare un ampio sguardo sul Novecento partendo da un romanzo pubblicato nel 1909. La Storia nel film appare come “sognata” (2) attraverso l’uso ricorrente dell’ellissi indefinita, dentro e fuori al racconto: lo spettatore non ha agenti esterni che gli indicano in che anno si svolgono i fatti, e per complicare il gioco, ad esempio, le lotte socialiste avvengono molto tempo dopo la comparsa della televisione a colori. La Storia trasfigurata, quindi, è funzionale a narrare un personaggio universale come Martin Eden: l’emancipazione e la lotta di classe appartiene a qualsiasi epoca storica, e anche chi viene dal basso, raramente mantiene la sua integrità una volta raggiunta la sofferta popolarità. Non è un caso si ritrovi la presenza costante di passate epoche storiche nei dialoghi (dai filosofi greci agli imperatori romani, dagli scrittori russi alle teorie di Herbert Spencer), proprio per ribadire i suoi corsi e ricorsi.

Anche qui, come nell’attuale cinema italiano contemporaneo dalla narrazione forte, il critico/cinefilo può vedere una serie di citazioni non ostentate, che è incerto se facciano parte del bagaglio culturale del regista, ma che saldano il collegamento col passato del cinema italiano. Se si vuole, ci sono ricordi da Gruppo di famiglia in un interno, ma l’analogia più affascinante ci sembra quella tra lo Steiner di La Dolce Vita e il personaggio di Russ Brissenden: entrambi hanno lo stesso epilogo e ricoprono lo stesso ruolo. Di più, una volta fuori scena, non agendo più come coscienza culturale del protagonista, quest’ultimo è smarrito e abbandonato al narcisismo più esagitato. Con uno stile diverso, un personaggio come Martin Eden sarebbe stato compreso solo da uno come Bolognini: per il suo continuo compiere scelte che lo isolano dal contesto sociale al quale gli altri vogliono destinarlo. Marcello lo fa nel migliore dei modi possibili: sperimentando con la narrazione e attraverso l’emancipazione culturale, ma tenendo ben presenti i rischi (come illustra la bella sequenza finale): Martin che guarda il suo io passato e non fa altro che rincorrerlo. Come al Marcello di La Dolce Vita, non rimane altro che l’incomunicabilità con gli altri e il mare.

(1) Non è una novità: oltre a Bella e perduta, l’anno scorso una pellicola simile a quella di Martin Eden (Super 16mm) è stata adoperata anche in Lazzaro Felice.

(2) Pietro Marcello parla di “trasposizione trasognata del secolo”, al link https://www.labiennale.org/it/cinema/2019/venezia-76-concorso/martin-eden

voto_4

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.