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MARX PUÒ ASPETTARE

MARX PUÒ ASPETTARE

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La ragione sfuggente.

Inadempienze, rimozioni, dimenticanze. Nel cinema di Marco Bellocchio il non detto assume spesso una valenza decisiva, molto più dei tanti ingombranti “pieni”: cinema, impegno politico, famiglia, religione, psicanalisi. Alla fine, marxianamente, la sovrastruttura appare più in ciò che sembra centrale, mentre la più impalpabile sostanza di cui sono fatti i sogni diventa il vero motore della ricerca e dello scavo.

Anche in questo documentario, alla ricerca delle cause che portarono Camillo, il gemello del regista, a togliersi la vita neppure trentenne, si oppone tutto il “resto”: il peso delle spiegazioni, la solidità dei fratelli intenti a costruirsi delle carriere prestigiose, le sicurezze di chi si è realizzato, cedono presto il posto all’elegia del perdente, alla sola cosa che appare indeterminata e fragile di fronte alle tante, ottuse pseudocertezze. Bellocchio compie la sua ricerca – condannata fin da principio all’incompiutezza delle spiegazioni a posteriori e ai tanti atti manca(n)ti dei protagonisti – nel rispetto di un personale percorso cinematografico che ha già provato a suturare le ferite: Gli occhi, la bocca, L’ora di religione, Il gabbiano. Marx può aspettare è allora, di riflesso, uno straordinario congegno di riduzione ai minimi termini e di contemporanea messa a distanza. Prendere le immagini e non tentare nemmeno di farle parlare, solo guardarle, scrutarle, ripensarle. Così è per la lettera di Camillo (il messaggio nella bottiglia, si potrebbe dire) che avrebbe potuto forse, chissà, cambiare il destino di quel fratello in crisi depressiva. Il regista ne riscopre l’esistenza a seguito della rivelazione del fratello maggiore, Piergiorgio: ma dopo tutti questi anni non sa interpretarla, non sa seche cosa abbia risposto. Può solo registrare (inizialmente) l’impaccio che essa gli provoca, recitarla stentoreamente e al massimo abbracciarne la consistenza monolitica, non può interpretarla né riviverne il senso.

Marx può aspettare diventa così la triste riprova di quanto sia sfuggente qualsiasi ragione, indagine, pretesa di sapere. Di quanto sia balorda ogni ideologia dinanzi alla caducità di ciò che è umano. E il laico Bellocchio, nelle sorprendenti parole del critico gesuita Fantuzzi, può divenire per questa strada addirittura un apologeta della fede. Ma non di una fede vissuta in positivo, come quella della superstiziosa e ossessionata madre, bensì di un credo che ha solo zone d’ombra, dubbi, interrogativi, scarne supposizioni che vi fanno corona. Rinunciando sul nascere ad ogni ipotesi salvifica, Bellocchio intesse il suo dramma in un crescendo di lontananze e di asciutti rimpianti, nell’eco sommessa di ciò che potrebbe essere, ma forse è troppo a misura di desideri, come nel sogno ad occhi aperti della sorella sordomuta che vorrebbe il paradiso solo per rivedere i parenti, i fratelli, il papà e la mamma: ma forse il paradiso è un luogo troppo vasto e troppo pieno per dei sogni tanto umani.

voto_5

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.