L’ennesima sfida del cinema di Amir Naderi.
Attraverso la ripetizione spasmodica di un gesto estremo, potremmo sostenere che il tratto unificante del cinema di Amir Naderi è la nevrosi: essendo egli molto più interessato agli elementi naturali, gli uomini agiscono nelle sue opere solo quando devono compiere in loop gesti estremi per raggiungere il loro scopo. Dal bambino sordo che sfascia le cassette in un garage in Sound Barrier (2005) al cinefilo continuamente pestato a sangue in Cut (2011), arriviamo alla sua ultima opera Monte, in cui il protagonista vuole a tutti i costi distruggere la montagna adiacente alla sua abitazione solo per poter vedere il Sole. Quindi nell’ultima parte del film non ci sono dialoghi, ma solo urla e battiti di martello che scandiscono il placido ritmo narrativo, per portare gli spettatori in un rapporto simbiotico con la follia del protagonista, nata dopo l’ennesimo rifiuto di Dio: tanto da uscirne spossati alla fine della visione. Dal Giappone di Cut agli USA di Vegas (2008), Naderi è un cineasta apolide che si appropria in ogni suo film della cultura e degli spettri che aleggiano sulla Storia dei paesi raccontati. Storia che egli tramanda sempre attraverso uomini, apparentemente comuni, colti un attimo prima e dopo il manifestarsi della nevrosi.
Sin dai tempi de Il Corridore (1984), il film che l’ha fatto conoscere anche in Italia, la sceneggiatura è sempre sembrata un mero pretesto per riempire il profilmico di fenomeni naturali: tanto che all’epoca si parlò di affinità rosselliniane e herzoghiane (1), laddove in quest’ultimo Monte sembra aver lasciato il segno il primo De Seta. Un mondo fuori dal tempo (in che anno siamo?), di dimensioni straordinariamente piccole, quindi fuori da una Storia che, eppure, emerge (i gendarmi e le suore). Questa lontananza è amplificata ancora di più dalla famiglia al centro del film, abbandonata da tutti e circondata da segni mortuari. L’unico bene materiale mercificabile sembra essere un fermacapelli: ma Agostino non riuscirà a vendere nemmeno quello, da oggetto superfluo ed erotico a nemesi, l’ennesimo simbolo di una (im)possibilità di migliorare che segna l’inizio della sua discesa nella follia. Ma anche questa influenza viene meno nel finale: perché pur di cogliere tale meraviglia ed evitare la CGI, la frana che chiude il film è realizzata attraverso il found footage. Ciò moltiplica i punti di vista (le inquadrature vengono da diversi media) e se si vuole può anche costituire una riflessione sui limiti del cinema nel cogliere un fenomeno tanto grande nella sua univoca totalità.
Come sempre in Naderi, grande importanza riveste il sonoro: i dialoghi latitano, ma le immagini reali vengono intensificate dall’incessante rumore del vento e dai sospiri dei protagonisti. Opera profondamente spirituale che si apre con una sepoltura e si chiude col sole che riempie lo schermo. Cinema che muta la visione in esperienza, non immersiva alla maniera cinefila, bensì meditativa e intimistica come una preghiera. Di qui la sua marginalità (è un cinema fatalmente per pochi) e soprattutto la sua trasparenza.
(1) si è tenuto conto della scheda del film su Il Mereghetti – Dizionario dei film Vol. 1, 2011, pag. 813
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