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NICK CAVE & THE BAD SEEDS – ONE MORE TIME WITH FEELING

NICK CAVE & THE BAD SEEDS – ONE MORE TIME WITH FEELING

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L’arte duramente necessaria.

Non esiste una maniera precisa, migliore o peggiore, per affrontare il trauma della morte. Nessuno può indicarci con esattezza come dobbiamo comportarci, cosa possiamo fare per affrontare il dolore per la scomparsa di qualcuno a noi caro. Non esistono manuali che ci insegnino come andare avanti con le nostre vite dopo questo “strappo” irreparabile, e spesso la consolazione di chi ci sta accanto suona stereotipata, vuota, così come i dettami di una fede che mai come in questi casi fatica a trovare una “giustificazione” al nostro lutto. Il dolore è il sentimento più intimo di tutti, quello che ci accomuna al di sopra di ogni cosa, e ognuno di noi deve concepirlo e imparare a conviverci da sé, elaborandolo alla propria maniera. Per un artista totale come Nick Cave, la prematura, sconcertante, morte del figlio Arthur non poteva non passare attraverso i meccanismi dell’arte, prima con la pubblicazione di un disco di inediti, Skeleton Tree, capolavoro di produzione minimal segnato da atmosfere crepuscolari e struggenti (paradossalmente la scrittura dell’abum è iniziata poco prima dell’evento tragico che ha colpito la vita del musicista) e poi con la realizzazione di una pellicola, affidata all’occhio di Andrew Dominik (che del contributo di Cave si era avvalso per le musiche del suo L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford), che indaga da un lato il processo di produzione di Skeleton Tree e dall’altro registra le confessioni davanti alla macchina da presa di Cave, il suo straniamento conseguente alla scomparsa del figlio, il tentativo di andare avanti, in un processo creativo indissolubile dalla propria vita privata. Girato quasi totalmente in un abbacinante bianco e nero (se si esclude la carrellata all’indietro “spaziale” sull’eterea Distant Sky), One More Time With Feeling (dal testo del brano Magneto) si sofferma con pudicizia sul lutto dei coniugi Cave e se, almeno nella prima parte, il nome di Arthur non è mai nominato e a prevalere sono momenti sospesi, silenzi e il tentativo, talvolta goffo e difficoltoso, di Cave e dei musicisti che lo circondano (a partire da Warren Ellis, che ormai costituisce a tutti gli effetti l’elemento complementare a Cave all’interno dei Bad Seeds, quello che ne ha caratterizzato il percorso e il suono in maniera netta, almeno da Dig, Lazarus, Dig!!! in poi) di proseguire con la routine di sempre, poi la presenza del figlio perduto diventa centrale. Dominik lascia che siano le performance musicali a trasmettere l’emotività intrinseca al lutto di Nick Cave: nel corso della pellicola vengono eseguiti sette degli otto brani che compongono la scaletta di Skeleton Tree, in un climax emotivo che parte dai loop ipnotici dell’oscura Jesus Alone, prosegue con il malconcio gospel di Girl in Amber, passando poi per le atmosfere jazzate e sperimentali di Magneto e Anthrocene, concludendosi infine con un terzetto di brani che sembrano un’unica lunghissima suite. I Need You è una struggente ballata d’amore, in cui la litania del canto di Cave risuona come una dichiarazione universale della propria sofferenza, mentre la pacatezza sognante di Distant Sky sembra riconciliare l’artista con un universo e un Dio che pare aver voltato lo sguardo altrove, e Skeleton Tree assomiglia ad un sussurrato epitaffio aperto alla speranza, alla luce, al cambiamento. Sono canzoni “difficili”, dalle liriche fumose e anti-narrative, spogliate da ogni facile arrangiamento. Composizioni nude, scarne, essenziali, dove i Bad Seeds si fanno da parte per lasciare spazio allo spleen del loro leader. Questo è il disco più personale di Nick Cave, almeno dall’epoca della (ri)scoperta della fede di The Boatman’s Call (1997). Dominik talvolta si perde in qualche preziosismo non necessario (come la soggettiva digitale del volo della “mosca”) e anche l’utilizzo del 3D appare come un vezzo autoriale che a volte pare rifarsi all’ultimo Godard (gli split-screen che accostano immagini bidimensionali e tridimensionali), ma più spesso non fa altro che aumentare l’immersività durante le sequenze delle esibizioni in studio. Ma tutto ciò non va ad intaccare un documento prezioso dove l’arte diventa uno strumento indispensabile, o meglio duramente necessario (la sofferenza di Cave, la sua difficoltà a concentrarsi sul suo “lavoro”, è visibile durante le riprese dei rehearsal in studio), per riuscire a imbrigliare il dolore e ridare senso al caos dell’esistenza. One More Time With Feeling è un oggetto ambizioso ed emozionante, inscindibile dal disco che accompagna, non può esistere l’uno senza l’altro (e viceversa), ed entrambi, assieme, ci presentano un Nick Cave radicalmente mutato rispetto al passato, mai più come prima, segnato dalla vita e dagli anni, volenteroso, ma forse non ancora pronto ad affacciarsi su un domani più incerto che mai. E chi di noi lo sarebbe? In sala solo per un paio di serate: ma il pubblico non ha mostrato interesse.

voto_5

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".