Il canto funebre di un popolo.
Gli uccelli di passaggio portano con loro le premonizioni. Funeste. Famiglia, onore, parole, pace sono tra loro consequenziali, interdipendenti. Non a caso, quando finiscono le parole e viene ucciso il messaggero, l’ambasciatore, la pace viene spazzata via, e a ritroso svanisce anche la famiglia e si spezzano i legami che tenevano unito un popolo. Nella sequenza più spaventosa, realistica e onirica allo stesso tempo in un film che è denso di tante sequenze spaventose, mercenari ben retribuiti e senza scrupoli si materializzano come cavalieri dell’apocalisse in una nuvola di sabbia e investono di fuoco la lussuosa e incongrua dimora dei Wayuu nel deserto, quasi letteralmente cancellandoli dalla faccia della terra. In pochi secondi, un cataclisma di piombo e fuoco si rovescia con l’ineluttabilità di un castigo divino, con la violenza infinita e deliberata di un atroce genocidio, ed è come se tale fosse davvero.
Come molti hanno detto, il film di Ciro Guerra e Cristina Gallego ha il passo e la veste di un documentario antropologico ed etnografico, ma l’impianto dell’epopea criminale. La contraddizione è fertile, eppure i due registri rimangono distinti quasi sempre. La divisione in capitoli (o canti) non sembra la studiata scansione di una vicenda, invece è il lento incupimento del contesto, in un’escalation che vede gli stessi protagonisti fare i conti con una realtà che muta più rapidamente di quanto non appaia loro. È il veloce cambiamento del mondo a fronte della lentezza con la quale i popoli sanno adeguarsi, il vero motore della storia. Capre, vacche, muli e collane sono la dote che Rapayet deve infatti racimolare alla fine degli anni Sessanta per avere il privilegio di sposare Zaida, di nobiltà superiore alla sua nel complesso mosaico familiare della regione della Guajira. Ma meno di un paio di decenni dopo, mentre ancora i codici d’onore e disonore impregnano le relazioni tra le tribù (e per favore, evitiamo ogni sguardo colonialista), a contare e farsi largo sono solo le ricchezze, le armi, gli equilibri criminali. Aníbal vince la faida più sanguinosa – a che prezzo – cedendo tutti i suoi beni residui. Lo spirito cede alla forza, consapevolmente firma il passaggio di consegne, si afferma per cancellarsi definitivamente, vivere un’ultima fiammata e perire. Il cupio dissolvi è contraddetto dialetticamente con gli inserti concentrati sull’alternanza delle stagioni e sul ritorno dell’identico (ed è la ragione per cui il film assume un’andatura strana, mai posata, sempre nervosa e presaga).
Forse quest’aspirazione alla saga, a cui allude per ragioni di marketing anche il titolo italiano, nuoce al film più di quanto non lo qualifichi perché il fascino di Pájaros de verano è più nella sua sproporzione di genere che nell’inserimento in qualsiasi canone, via mediana tra il gangster movie, il documentario e il western; più nella sua esorbitanza inattesa che nell’adeguamento a un pattern, per metaforico e tribolato che quest’ultimo sia. Ma anche così, non c’è timore: lo sguardo occidentale (e occidentalizzato) non potrà scambiare per roboante epica della malavita quello che è fino all’ultimo istante il dolentissimo epicedio di un popolo e di una maniera di vivere e sentire la propria esistenza.
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